Anche i fascisti (e il giovane Brancati...) invecchiano

Negli scritti giornalistici del dopoguerra si ironizza sugli italiani sotto il regime di Mussolini

Anche i fascisti (e il giovane Brancati...) invecchiano
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L'aforisma più bello di Vitaliano Brancati, scritto pensando alle sue scelte fascistissime in giovane età, è stranoto: «In certe epoche non bisognerebbe mai avere vent'anni». Infatti a quell'età era amico del conterraneo Telesio Interlandi (entrambi siciliani, studiavano insieme a Catania), al quale chiese un incontro personale con Benito Mussolini a Palazzo Venezia nel 1931. Aveva qualche anno in più quando cominciò a scrivere per il quotidiano Il Tevere e per Critica fascista e poi a lavorare alla rivista Quadrivio. Però ne aveva già ventotto quando Sua Eccellenza Galeazzo Ciano nel 1935 spese per lui una calorosa raccomandazione presso il direttore del Corriere della sera Aldo Borelli per farlo collaborare al giornale, anche se poi la cosa non andò in porto (Brancati iniziò a scriverci nel '42 e poi con regolarità nel dopoguerra). E ne aveva oramai trenta quando si candidò alla direzione del Popolo di Sicilia scrivendo al Duce: «Io non mi servo di piccole scale, e mi sembra più onorevole rivolgermi direttamente al capo».

Ora. Non è il caso di aprire il libro paga dell'Italietta intellettuale sotto il regime. Ma è utile ripercorrere brevemente la biografia intellettuale di Vitaliano Brancati («sui vent'anni un fascista fino alla radice dei capelli» come diceva di sé, ma organico al regime almeno fino al '37, anno che segna il suo distacco dall'ideologia fascista) per prepararsi alla lettura della raccolta di un pugno di articoli usciti a partire dal febbraio 1945 su La Città Libera e Risorgimento liberale e che Longanesi nel 1946 pubblicò in volume sotto il titolo I fascisti invecchiano. Ma, aggiungiamo noi, per fortuna non dimenticano.

Ora quel libro rivede la luce (grazie a Elliot, pagg. 70, euro 9,50), e per fortuna. Perché il lettore qui dentro trova una bellissima scrittura, in bilico fra giornalismo e letteratura, e soprattutto perché qui Brancati, con un'impietosa autoanalisi degli anni della dittatura, parla di conformismi, «giovinezza ingannata», pentimenti, ipocrisie, epurazioni per modo di dire, cedimenti nostalgici, veri fascisti e finti antifascisti, opportunismi e piccoli eroismi. Insomma, coglie l'eterno spirito italiano. E tutto ciò con feroce ironia. Se non con una punta di tragica comicità.

Tra le pagine più belle, segnaliamo: quelle pessimistiche dedicate agli «stessi giudici» che «seggono, col medesimo sussiego, vent'anni a condannare le persone per aver detto male dell'impero e vent'anni per averne detto bene», quei giudici che «hanno bruciato la loro fotografia del '37 prima di venire a giudicare». Quelle dedicate all'impiegato dello Stato che nel '36 diceva «la grande epoca in cui viviamo e il nostro amato Capo» mentre «ora dice il nefando regime e l'odiato tiranno». Gli articoli che si soffermano sui temi della civiltà e della giustizia.

E poi, soprattutto, la constatazione finale: che se è vero che quelli - Mussolini, Hitler e i loro gerarchi - furono «colossi di cartapesta», il destino riservò loro la fortuna, e la sfortuna per noi, di trovarsi di fronte solo «uomini di media statura».

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