di Livio Caputo
Il presidente siriano Assad si sente sempre più sotto assedio, e nel momento in cui la Lega araba lo minaccia di un intervento, la Turchia si schiera apertamente contro di lui e perfino la Cina sembra abbandonarlo, mette in guardia l'Occidente contro un intervento militare sulle linee di quello contro Gheddafi.
In una intervista al Sunday Telegraph il presidente ha ammonito che «la Siria è uno snodo fondamentale della regione, una sorta di faglia sismica e se ci mettiamo a scuotere il suolo qui si provocherà un terremoto». Se i Paesi occidentali dovessero intervenire il Paese sarebbe trasformato in «un altro Afghanistan. Ogni problema in Siria la farà bruciare tutta. Se il piano è quello di dividere la Siria, questo equivale a dividere l'intera regione». Per dare più forza ai suoi argomenti, Assad ha anche ribadito che il suo governo non è chiuso come altri alle istanze della primavera araba. Pur ammettendo che «molti errori» sono stati commessi dalle sue forze di sicurezza, anche se solo per colpire «terroristi», ha concluso: «Non siamo stati un governo testardo, ma sei giorni dopo l'inizio delle proteste ho avviato le riforme».
Assad ha buoni motivi per essere in allarme. Invece di placarsi sotto i colpi delle forze di sicurezza, che in sette mesi hanno ucciso oltre tremila persone e compiuto dodicimila arresti, la rivolta popolare continua a serpeggiare nel Paese: solo venerdì scorso, ci sono state altre quaranta vittime, tra rivoltosi e forze dell'ordine. Molti soldati hanno disertato piuttosto di sparare sui loro concittadini e si stanno organizzando in una sorta di movimento partigiano, già in grado di compiere attentati e tendere imboscate. Sei settimane fa, si è costituito anche un embrione di governo in esilio, ad Istanbul, che dopo un avvio stentato sembra ora riuscito a stabilire, grazie anche ai soliti facebook e twitter, contatti con la resistenza interna. Di fronte a una situazione così compromessa, i vicini della Siria hanno inasprito il loro linguaggio contro Assad, applicando sanzioni e minacciando forme non specificate di intervento. Se l'Occidente, che ha appena concluso l'avventura libica e non ha certo voglia di imbarcarsi in altre guerre si limita per ora a imporre le misure (per la verità abbastanza blande) votate dal Consiglio di sicurezza e a condannare periodicamente la repressione, la Lega araba ha preso posizioni inusitatamente dure contro un «paese fratello» e fatto capire che, se la repressione non cesserà e non sarà avviato un dialogo con l'opposizione sunnita, non potrà fare a meno di intervenire.
La minaccia più seria per il regime viene tuttavia dalla Turchia. Il premier Erdogan, fino a pochi mesi fa grande amico di Assad, gli ha voltato le spalle e - nella sua ansia di diventare il punto di riferimento per la primavera araba - si è messo a fare la voce grossa. Non solo Ankara ha accettato di ospitare il governo in esilio, ma ha anche aperto le frontiere ai siriani in fuga dalla repressione e provveduto segretamente a rifornire i ribelli di armi. Fin dove Erdogan sia intenzionato a spingersi su questa strada, rischiando di provocare il famoso «terremoto», non è dato di sapere. Ma la politica di forza praticata ormai da tempo dalla Turchia (vedi la faida con Israele) fa pensare che non lascerà le cose a metà.
Ci si chiede come mai il regime siriano, basato sulla minoranza alawita che costituisce appena il dieci per cento della popolazione, sia riuscito a resistere per tanto tempo alla pressione della piazza.
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