In realtà non vogliamo parlare dello hijab. L'Islam è Santo e grande: non ha bisogno dei nostri permessi o della nostra indignazione.
Vogliamo parlare però delle femministe. Le quali, ieri, hanno avuto un orgasmo editoriale quando sull'Espresso settimanale le cui glorie passate sono ultimamente esaltate da copertine come quelle di Soumahoro e Zerocalcare hanno letto l'intervista in cui la giovane attivista Aya Mohamed, nata in Egitto e cresciuta a Milano, rivendica, come da titolo del servizio, che «Indossare il velo è una scelta femminista». Wow! Anzi, Woke.
Purtroppo, però, il femminismo intersezionale sta bene fra Porta Romana e il Quadrilatero. Nella provincia dell'Helmand o a Qom, un po' meno.
È il problema irrisolto della sinistra che si sente migliore sposando le cause peggiori. Capitalista per tornaconto, consumista per scelta e liberale per finta, aspira alla purezza del fondamentalismo - barattando la minigonna col velo - come espiazione dei propri sensi di colpa. E così è un attimo rivendicare come modello di emancipazione un simbolo del patriarcato.
Va bene. Strappiamo il velo dell'ipocrisia.
Noi seguiamo con lo stesso entusiasmo sia le battaglie in difesa delle donne che in Iran soffrono a causa di un'oppressione, sia le campagne giornalistiche a favore delle donne che in Occidente rivendicano le proprie tradizioni.Sapendo però che il problema non è essere libere di indossare il velo qui. Ma essere obbligate a indossarlo là.
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