Galli della Loggia: "È stato provvidenziale interrompere la Via della Seta"

Le infiltrazioni cinesi sono solo uno dei mali dell’università contro cui lo storico combatte da sempre, assieme al potere eccessivo dei rettori, alla burocrazia soffocante per i docenti, alla degenerazione dell’autonomia degli atenei

Ernesto Galli della Loggia
Ernesto Galli della Loggia
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Le infiltrazioni cinesi sono solo uno dei mali dell’università contro cui lo storico Ernesto Galli della Loggia combatte da sempre, assieme al potere eccessivo dei rettori, alla burocrazia soffocante per i docenti, alla degenerazione dell’autonomia degli atenei. L’ultima occasione per parlarne è stato il convegno in Senato «Per un’università nuova in un’Italia migliore».

Professore, che rischio vede dietro la collaborazione delle università italiane con quelle cinesi?

«Questo rapporto prefigura un fatto che sarà sempre più importante: uno scontro di narrazioni del mondo, un’influenza culturale, un modo per avere informazioni a servizio del governo cinese. La Via della Seta aperta dai Cinque Stelle è stata provvidenzialmente chiusa dal governo Meloni».

I rettori si rendono conto dei reali pericoli?

«I servizi segreti hanno acceso un faro sui rapporti Cina e Italia anche per far capire ai rettori che devono fare attenzione ai possibili rischi».

Perché l’università è malata?

«Perché ha smesso di pensarsi come un sistema al servizio della complessiva crescita culturale del Paese per pensarsi come un insieme di singoli atenei impegnati soprattutto nella competizione per assicurarsi ognuno un sempre maggior spazio».

Colpa dei rettori?

«Quasi tutti i rettori, ormai, sono soliti vivere la propria carica come la tappa iniziale di un percorso di ben maggiore rilevanza sociale: naturalmente fuori dall’università. È divenuta pressoché generale l’aspirazione a ricoprire dopo il rettorato qualche incarico importante nei vari organismi in cui si articola il potere specie locale, a svolgere qualche ruolo di tipo pubblico e magari politico a livello nazionale o no».

E questo cosa ha comportato per gli atenei?

«A causa della crescita del potere rettorale e a dispetto paradossalmente dell’autonomia di cui gode, l’università italiana è divenuta sempre meno l’università dei professori. Sempre più è un’altra cosa. Anche nella sua immagine pubblica, ogni ateneo appare sempre meno come un ’corpo’ e sempre più, invece, come un organismo raccolto intorno al capo dell’ateneo: una sorta di ’premierato’ accademico».

Dovrebbe essere più centrale il ruolo dei docenti?

«I docenti vengono lentamente spossessati delle loro prerogative, angariati da controlli demenziali sulla loro produttività, asfissiati sotto una valanga di moduli, di questionari, riunioni, commissioni, di calcoli di crediti e di

requisiti minimi. Sempre di più percepiscono se stessi come semplici addetti alla somministrazione di lezioni meccanicamente ripetitive, come addetti alla catena di montaggio di esami. Di qui la necessità di un cambio di rotta».

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