Le macchie del ghepardo non sono un difetto. E quelle degli umani disegnano la loro identità

Leggendo la Bibbia l'idea del peccato che prevale non è quella di macchia, a noi così comune e spontanea, è invece quella di mancare il centro, il bersaglio

Le macchie del ghepardo non sono un difetto. E quelle degli umani disegnano la loro identità
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Un uomo poco più che cinquantenne, dall'aspetto ben curato, mi chiede di ascoltarlo. Entriamo in confessionale e mi dice: «La mia anima è come un ghepardo. Forte, energica, sempre scattante, elegante, ma con tante piccole macchie che non riuscirò mai a togliere. Sono qui però a chiederle se c'è un modo per fare qualcosa o se devo rassegnarmi, considerando le mie debolezze come se fossero la mia pelle. Non sono chissà quali errori, non faccio nulla di grave, ma un po' mi danno fastidio, anche se a pensarci bene, come per il ghepardo, spesso sono ciò che mi caratterizzano».

Descrizione accattivante, fantasiosa, ma anche molto esaustiva. La prima reazione è stata pensare: «vengo pure scambiato per quello che deve smacchiare i ghepardi... ma stiamo scherzando?!». La risposta immediata che gli ho offerto è stata molto pretosa: la confessione non è una lavatrice, ma un'esperienza energizzante di autocoscienza. Leggendo la Bibbia l'idea del peccato che prevale non è quella di macchia, a noi così comune e spontanea, è invece quella di mancare il centro, il bersaglio. La domanda non è quindi «sono sporco o sono pulito?», ma è «quanto sono fuori dal centro?». Se la questione è l'essere «sfocato», chiede di considerare la vita nel suo insieme e non a pezzi: questo funziona e questo no. La cosa più importante è capire quale è il centro da mirare, poi posso mancarlo di poco o di tanto. Ma se ho il centro, ho anche il positivo: posso avvicinarmi

sempre di più, provando e riprovando. L'idea di macchia è solo negativa: c'è o non c'è, il bersaglio invece spinge al miglioramento. Sbagliando si impara.

Nei giorni successivi il ghepardo dentro di me ha fatto i suoi balzi felini tra mente, cuore, esperienze, relazioni. Guardando ai suoi colori ho fatto questa riflessione. Ho immaginato la vita come un foglio bianco con un grande quadrato giallo nel centro. Arriva il nero, è inevitabile. Macchia. Se c'è un punto nero sul quadrato giallo al centro di un foglio bianco, l'attenzione va subito lì. L'occhio viene calamitato da quel puntino nero che rovina il giallo e persino riesce a distrarci dal bianco. Dà fastidio. Viene istintivo cercare una gomma per cancellarlo, ma se ci provi inevitabilmente allarghi la macchia nera sbavandola, scolorisci il giallo e se insisti buchi anche il foglio bianco. Cosa fare? Rassegnarsi? Accontentarsi?

Pensa e ripensa, mi si accende una lampadina! Non è questo l'unico modo per pensare al nero. Il nero non è solo macchia, ma è innanzitutto un colore. Se il nero è e resta macchia rovina tutto, se invece è colore allora posso gestirlo. Non toglierlo. Posso farlo diventare ad esempio una linea intorno al giallo. Se il nero è colore e non macchia, quando prendi in mano un foglio bianco, con un quadrato giallo che ha una cornice nera intorno, vedi splendere un giallo più vivo su un bianco che sembra ancora più luminoso. Paradossalmente c'è più nero in una cornice che in una macchia. In

questa luce più biblica la morale non è qualcosa di negativo, cioè un insieme di «no» o di divieti, ma è qualcosa di positivo, di creativo, che tiene conto dei limiti e dei condizionamenti, che mette al centro la mia persona, la mia vita, che mi porta alla costruzione di me stesso anche se in modo lento e graduale, che mi stimola a ricostruire i valori, che mi scuote dalla mia tendenza a rassegnarmi e mi spinge ad un cammino di crescita interiore. Il ghepardo non lo voglio scolorire, non lo voglio diverso da se stesso pensando che senza macchie sarebbe più bello. Lo rovinerei. Il ghepardo lo devo curare, nutrire, ammaestrare, domare, ammirare.

Lo sperimento a volte anche nelle relazioni: chi ti vuole diverso non ti vuole affatto.

Perché stare a logorarsi per una macchia? Perché stare a prendersela per una mancanza? Perché farsi il sangue amaro per un errore che non si può cancellare? Perché non guardare invece al ghepardo, cioè ai gesti premurosi ricevuti, ai doni scambiati, alla condivisione del bello? Perché non curare questi? Perché non considerare l'inevitabile nero non come macchia ma come colore che fa risaltare meglio il giallo dei sentimenti e rende più luminoso il foglio bianco della quotidianità?

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