
Se immaginassimo di stimare quanti anni di futuro spetterebbe all'attuale popolazione italiana in base alla sua consistenza numerica e alla distribuzione per sesso ed età al 1° gennaio 2025 - otterremmo, stando alle aspettative di vita più recenti (Istat 2024), un totale di 2 miliardi e 286 milioni di anni-vita, ossia 38,8 anni pro capite.
Ci troviamo, dunque, in presenza di una popolazione che ha 46,8 anni di vita vissuta tanta è l'età media del complesso dei residenti in Italia al 1° gennaio 2025 , ma che ha la prospettiva di viverne (mediamente) otto in meno. La cosa non è priva di rilievo pratico. Se infatti si pensa che negli anni '50, all'avvio del «miracolo economico», il vissuto (l'età media) degli italiani era di 32,5 anni e la loro aspettativa pro capite era ben superiore (41,5 anni da vivere), sembrano pienamente comprensibili la progettualità e la propensione all'investimento leggasi impegno e sacrificio evidenziati dal popolo di allora; mentre in quello di oggi già avanti ben oltre «il mezzo del cammin della vita» - affiora il rischio di un orientamento a vivere nel presente, limitato unicamente a «fare manutenzione».
D'altra parte, entrando più nel dettaglio circa la composizione dei quasi 2,3 miliardi di anni di futuro che misurano il nostro attuale «patrimonio demografico», si calcola che vi sarebbero globalmente 96 milioni di anni da trascorrere in epoca di formazione (riservati a chi oggi è in età 0-19 anni), un miliardo e 203 milioni di anni da spendere in età potenzialmente lavorativa (tra il 20° e il 67° compleanno) e 988 milioni da vivere oltre i confini dell'attuale età di quiescenza (da 67 anni in poi). Ne segue che, in uno scenario fantascientifico di chiusura alla mobilità e di totale assenza di nascite, gli attuali 58,9 milioni di residenti avrebbero sempre a livello medio - un futuro potenziale di 82 anni da pensionati per ogni 100 anni da lavoratori. Ce n'è quanto basta per mettere in ansia chi si occupa di quadratura dei conti della previdenza; ma forse l'affanno è ancor più grande se si riflette su come un popolo che ha davanti a sé la prospettiva di un futuro con 1,2 miliardi di anni di lavoro potrebbe far fronte agli impegni che derivano da un debito pubblico (a tutt'oggi acquisito) che sfiora i 3.000 miliardi di euro. Ma per fortuna non siamo ancora nel mondo della fantascienza e ci conforta la certezza che nascite e migrazioni esistono e sono destinate a persistere, governando i flussi che alimenteranno la consistenza del nostro «patrimonio demografico». In proposito, va però osservato che, quand'anche aperti a culle e confini, il conteggio su come in prospettiva potranno contrapporsi la produzione/acquisizione e il consumo/perdita di anni di futuro non offre - sulla base degli scenari Istat più aggiornati e verosimili elementi che possono ritenersi confortanti.
Al 1° gennaio 2055 il patrimonio demografico dei residenti in Italia valutato agli attuali livelli di sopravvivenza (2024) - risulterebbe infatti sceso a un miliardo e 877 milioni di anni-vita (-18%): ciò significa 409 milioni di futuro complessivamente persi e una sua riduzione a livello pro-capite di quasi quattro anni (da 38,8 a 35,2). Il tutto mentre il rapporto tra anni da spendere come pensionati per ogni 100 da lavoratori verrebbe ad accrescersi di cinque punti percentuali (passando dall'attuale 82 a 87 per 100), indirizzandosi quasi inesorabilmente verso la parità.
Siamo dunque un popolo inevitabilmente destinato ad erodere il proprio futuro? Gli scenari e le stime prospettate ci dicono che in ogni anno del trentennio 2025-2054 verremmo a dissipare mediamente quasi 14 milioni di anni-vita. Come può accadere tutto ciò? In forza di quale meccanismo verremo a perdere pro capite nei prossimi tre decenni 3,6 anni di vita «da vivere», subendo nel contempo una consistente crescita di quella «già vissuta» (5,1 anni di aumento dell'età media)?
La spiegazione va ricercate negli effetti di un insufficiente ricambio generazionale. Problema tanto attuale quanto di difficile soluzione. Nella costruzione del futuro ogni neonato immette mediamente nel patrimonio demografico del nostro Paese 81,4 anni di futuro se maschio e 85,5 se femmina (alle condizioni attuali di sopravvivenza), così come ogni immigrato vi contribuisce apportando la propria, spesso ancora lunga, aspettativa di vita. Nel contempo ogni morte e ogni emigrazione sottraggono al collettivo di appartenenza anni di futuro, e lo scorrere del tempo porta inesorabilmente chi sopravvive ad aver consumato, decurtandolo dal patrimonio, un altro (piccolo) pezzo della sua vita residua. Ne consegue che nascite, morti, migrazioni e invecchiamento, sono tutti elementi che determinano le poste attive e passive da cui risulta la variazione del patrimonio demografico di un Paese.
Il sorpasso delle nascite sulle morti, ormai strutturale e con ordini di grandezza difficili da compensare pienamente attraverso apporti migratori netti governabili, fa da sfondo a un dibattito che, prescindendo dalle immancabili (e legittime) recriminazioni sul perché per decenni non si è fatto nulla, cerca faticosamente di mettere in campo un approccio costruttivo: cosa si potrebbe fare; chi dovrebbe agire, e in che modo. Ed inoltre, come si potrebbe accrescere e valorizzare tutto ciò che diamone atto - si sta faticosamente facendo da qualche tempo.
Oggi siamo tutti ben consapevoli che, se vogliamo arrestare la perdita di futuro, è necessario agire: con efficacia, su più fronti e subito. Non è più il tempo delle diagnosi. Perché la demografia - per dirla ancora una volta con le parole di un illustre studioso - «si vendica di chi la dimentica».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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