Benito, il fascista per caso che ipnotizzò gli italiani

Giordano Bruno Guerri racconta i meccanismi del consenso (totale e personale) creati dal Duce

Benito, il fascista per caso che ipnotizzò gli italiani

Quando c'era Lui non è vero che i treni arrivassero in orario. Come non erano vere molte delle cose raccontate dalla propaganda di Regime. Ma nemmeno l'Italia era diventata un inferno, semmai una dittatura sospesa tra le brutture proprie delle dittature ed una certa dose di fantasie grandiose atte a risollevare il morale di una media potenza che si era sognata grande con troppo anticipo. Però senza dubbio c'era Lui e questo per gli italiani rappresentava molto.

Durante il regime gli italiani, parlando di Benito Mussolini anche in casa lo chiamavano «Benito», non con il cognome, men che meno «il duce», tanto era una presenza familiare nelle loro vite, detestata o più spesso amata. Da qui bisogna partire, per capire quell'epoca. Quell'enfasi, quella presenza invasiva di un singolo uomo oggi come oggi, oltre ad apparirci retorica rischia di apparirci irrimediabilmente come falsa e insincera. Siamo colpiti, pensandoci, da una sorte di fastidio estetico. Eppure quel processo di identificazione tra il leader e il popolo ci fu. E molto spesso passò attraverso le immagini e i media, a partire dalla radio di cui si sono appena festeggiati i cent'anni di trasmissione.

Bisogna fare uno sforzo di comprensione per capire quel meccanismo. È quello che Giordano Bruno Guerri aiuta il lettore a fare in Benito. Storia di un italiano, in libreria da oggi per i tipi di Rizzoli.

Benito lavorò alla sua immagine sin dalla sua gioventù socialista. E fu abile in fondo a creare anche delle linee di continuità. Uno dei punti forti di questa costruzione era la retorica del figlio del fabbro, venuto dalla provincia (quanta provincia c'è in ogni arci-italiano) per riforgiare il Paese. Altra definizione azzeccata: negli anni in cui fu rivoluzionario socialista, Benito usava spesso lo pseudonimo «l'homme qui cherche», l'uomo che cerca. Come diceva Renzo De Felice: «l'essere arrivato al potere non lo aveva fatto cessare di essere l'homme qui cherche; era rimasto l'uomo del giorno per il giorno, l'uomo delle soluzioni nei fatti e a breve termine». Ma la sua forza retorica era indubbia e gli rese possibile creare un percorso emotivo e biunivoco con il popolo. Questa radice narrativa di Mussolini, Guerri la racconta nel capitolo intitolato «il figlio del fabbro». Rende conto di una capacità di seduzione, istintiva e a 360 gradi (belle signore comprese), che rende conto della tempra umana che ha consentito la creazione di una macchina di propaganda gigantesca ma quasi tutta mussolinocentrica.

Poi con la presa del potere le cose cambiarono in parte e il poliedrico Ulisse della politica di nome Benito fu in grado di adattare la retorica al sistema. Come spiega Guerri: «Benito consigliava ai fascisti più vicini di vestirsi ammodo, per darsi un tono più ortodosso. Scoprì il cilindro, il colletto a farfalla, portò perfino la bombetta finché si accorse dai film americani li amava, specialmente quelli comici che era un segno distintivo di Stanlio e Ollio. L'apparato di gesti, attenzioni, movenze gli servì a interagire non tanto con il re che aveva abbastanza nobiltà e sangue piemontese per pretendere un'eleganza fondata più sulla sintesi e l'austerità che su ghingheri o salamelecchi quanto con la folla dei funzionari, dei cortigiani, del bel mondo romano che faceva a gomitate per incontrare il giovane presidente. Seguiva quelle regole per dimostrare che il fascismo non intendeva sovvertire niente... Benché avesse già in mente i tratti essenziali della profonda trasformazione che desiderava per l'Italia e il suo popolo». Lo fece anche da teatrante, spiega sempre Guerri. Già allora durante i discorsi pubblici spalancava e roteava gli occhi, gesticolava in eccesso. Erano pose studiate per dare l'impressione della forza, dell'autorità, dell'imponenza. In mancanza della televisione e dei primi piani, le espressioni e i gesti dovevano essere più marcati che in teatro. E come un attore usava pure la voce. Riutilizzava in questo «la magistrale lezione impartita tra il 1915 e il 1921 da Gabriele d'Annunzio, che a sua volta aveva carpito segreti e tecniche da Eleonora Duse, il vertice mondiale dell'arte scenica».

Iniziò così un culto personale che a lungo mascherò le fragilità di un Paese, sino a trascinarlo verso il più tragico degli esiti. Questo Guerri lo spiega davvero mirabilmente in un volume che brilla per il modo in cui la scrittura si parla con le immagini di altissima qualità che le accompagnano. Non c'è miglior esempio del culto della personalità che una frase del Duce usata persino per la pubblicità dei Baci Perugina: «Vi dico e vi autorizzo a ripeterlo, che il vostro Cioccolato è veramente squisito!». Firmato «MUSSOLINI», così tutto maiuscolo.

La conclusione di Guerri? «Gli italiani erano mussoliniani, non fascisti, perché in lui si volevano identificare, in un superuomo che chiamavano familiarmente Benito». Altro che culto dello Stato, della Patria o del popolo guerriero. Volevano un uomo che tutto risolvesse e li scaricasse di ogni responsabilità. Noi italiani di oggi siamo cambiati? Ce lo diranno i posteri.

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