Burnham, il mastino dell'Occidente

Tornano due libri dello studioso che voleva evitare il suicidio della nostra civiltà

Burnham, il mastino dell'Occidente

Nel 1946 apparve in Italia in una traduzione anonima (ma di Camillo Pellizzi) un libro destinato a fare rumore, The Managerial Revolution (La rivoluzione dei tecnici, nell'edizione italiana), anche perché lo stesso Pellizzi si ispirò alle sue tesi per il saggio Una rivoluzione mancata (1948) nel quale sosteneva che il vero «insuccesso» del fascismo non sarebbe stata la sconfitta militare quanto il fallimento del progetto corporativo così come era stato portato avanti ignorando il ruolo che i tecnici avrebbero dovuto svolgere in una società ormai inevitabilmente avviata verso la tecnocrazia.

Quando pubblicò The Managerial Revolution James Burnham (1905-87) importante filosofo della politica che insegnava alla New York University, aveva già clamorosamente abbandonato la sinistra politica e culturale nella quale militava da anni. Nel maggio 1940, infatti, si era dimesso dal Workers Party precisando di non credere più nel materialismo dialettico e aggiungendo che l'economia marxiana gli appariva falsa, obsoleta e priva di significato. Era stata una rottura definitiva che, in seguito, lo avrebbe portato, «colonna» della rivista The National Review, su posizioni conservatrici e di difesa dei valori della civiltà occidentale tanto da essere insignito nel 1983 da Ronald Reagan della medaglia presidenziale della libertà.

Oltre a The Managerial Revolution, inserito da Life nella lista del 100 libri più influenti del ventennio 1924-44, Burnham scrisse molte opere di successo delle quali due, particolarmente significative per comprenderne il pensiero, sono state ripubblicate dalla casa editrice Oaks, entrambe precedute da una introduzione di Francesco Ingravalle: In nome di Machiavelli. I difensori della libertà (pagg. 286, euro 28) e Il suicidio dell'Occidente (pagg. 390, euro 28). Si tratta di lavori appartenenti a generi diversi e in qualche misura legati al momento storico in cui furono pensati e scritti, il primo all'inizio degli anni '40, il secondo verso la metà degli anni '60, ma si tratta di saggi che non hanno perso lo smalto originario.

Opera di ispirazione liberale e antitotalitaria, espressione di un liberalismo di accezione classica ed europea, In nome di Machiavelli è uno studio che fece da apripista a tutta una serie di importanti pubblicazioni sulla fenomenologia del potere e sui percoli di un processo degenerativo delle istituzioni democratiche. Al momento della pubblicazione si stava uscendo dalla Seconda guerra mondiale ed è comprensibile che la riflessione degli studiosi di filosofia o di scienza politica si preoccupasse del futuro con l'occhio rivolto soprattutto alla libertà intesa come tutela per l'individuo nei confronti dell'esercizio di un potere arbitrario, non controllato da un sistema di «pesi e contrappesi» giuridici. Non è un caso che qualche tempo dopo l'uscita del volume di Burnham venissero pubblicati diversi lavori che affrontavano le stesse tematiche e che sarebbero diventati classici del pensiero liberale, da The Road to Serfdom (La via verso la schiavitù) di Friedrich von Hayek fino a Du pouvoir (Il potere) di Bertrand de Jouvenel e a Civitas humana di Willhelm Röpke.

Per Burnham il filone degli élitisti da Gaetano Mosca a Vilfredo Pareto a Roberto Michels si ricollega idealmente a Machiavelli presentato come il vero fondatore della moderna scienza politica nel senso che prescindono da ogni suggestione valutativa le sue ricerche di leggi (o «uniformità», per usare il linguaggio paretiano) del comportamento politico. Lo studioso americano ha una idea della democrazia, legata non tanto al mito dell'«autogoverno del popolo», quanto al concetto di libertà come condizione naturale per il progresso in tutte le sue sfaccettature. Anche se non usa questo termine, Burnham allude alla liberal-democrazia: un concetto simile a quello della «democrazia concorrenziale» elaborato dall'economista Joseph Schumpeter che parlava della democrazia, appunto, come di manifestazione di «libera concorrenza per un voto libero». In questo perimetro concettuale acquista rilevanza il diritto di opposizione che funge, in quanto meccanismo di «difesa giuridica», da garante di quell'equilibrio di pesi e contrappesi necessario per il corretto funzionamento del sistema.

Burnham, insomma, deve essere iscritto nella schiera degli intellettuali liberal-conservatori. Ma con una precisazione: il suo liberalismo è molto vicino a quello della tradizione culturale europea, da Alexis de Tocqueville a Raymond Aron per intenderci, ma agli antipodi del cosiddetto «liberalismo americano» che per lui è sinonimo di radicalismo, filo comunismo e cripto comunismo. In proposito, non lascia dubbi il aggio Il suicidio dell'Occidente, che malgrado il titolo di sapore spengleriano, si presenta come uno smagliante pamphlet contro le idee e le pratiche del «liberalismo americano» che avrebbero contribuito alla «recessione» culturale, ma anche alla «contrazione» politica e geografica, dell'Occidente. A dire il vero, con questo lavoro di Burnham, siamo di fronte non tanto al classico pamphlet, ma a una solida opera sull'essenza del «liberalismo» in quanto teoria politica e i fraintendimenti di coloro che, negli Stati Uniti, si definiscono liberali (liberal) e, altrove, radicali.

Il richiamo all'«ordine di valori liberale», come pure il rifiuto dell'ottimismo di matrice illuministica sulla naturale bontà dell'uomo e l'accettazione del realismo politico come chiave interpretativa del passato e guida per il futuro, hanno indotto a collocare Burnham all'interno di quel gruppo di intellettuali, provenienti tutti dal trotzkismo e noti come

«neo-conservatori», particolarmente influenti durante la presidenza di George W. Bush. In realtà, il pensiero di Burnham, se pure ha diversi punti di contatto con i «neocon», è più ancorato alla tradizione classica del conservatorismo.

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