Un lungo, intenso amore lega l'Italia all'Egitto dei faraoni. Lo ricordano a Roma gli obelischi, a partire dal Cinquecento rialzati dai pontefici, le magnifiche collezioni dei Musei Vaticani ma, soprattutto, gli allestimenti radicalmente rinnovati nel 2015 del Museo Egizio di Torino, il più antico del mondo. Un'esposizione voluta nel 1832 da re Carlo Felice che acquisì la preziosa collezione di Bernardino Drovetti, un diplomatico piemontese arrivato in Egitto al seguito di Napoleone e considerato, al pari del suo rivale padovano Giovanni Battista Belzoni, uno dei padri della moderna egittologia. All'avventuroso veneto, al quale la sua città ha appena dedicato una splendida mostra, si deve invece la scoperta nel 1817 del tempio di Abu Simbel, il ritrovamento, nel 1818, della tomba di Sethi I nella Valle dei Re e l'apertura dell'entrata nella piramide di Chefren.
Esplorazioni pioneristiche alle quali, tra Ottocento e Novecento, seguirono campagne scientifiche sempre più strutturate e fruttuose. Ricordiamo in particolare quelle di Ernesto Schiaparelli, al tempo direttore dell'Egizio, a cui si devono scoperte straordinarie come la tomba di Nefertari nella Valle delle Regine. In occasione dello sbarramento di Assuan e la formazione del lago Nasser, restano negli annali le straordinarie imprese delle ditte italiane per salvare il patrimonio archeologico minacciato dall'innalzarsi delle acque del Nilo; tra il 1960-68 Salini Impregilo spostò e mise in sicurezza i templi di Abu Simbel e tra il 1975-1980 le aziende Mazzi e Condotte d'Acque salvarono il complesso di File.
Operazioni titaniche a cui contribuirono le migliori eccellenze nazionali: ingegneri, tecnici, topografi dell'Istituto Geografico Militare e tanti scienziati. Un magnifico esempio di «soft power» tricolore che tutt'oggi prosegue con successo. Con l'appoggio dell'Istituto Italiano di Cultura del Cairo e dell'ottimo ambasciatore Giampaolo Cantini, sono oltre venti le missioni archeologiche oggi operanti su tutto il territorio egiziano, da Assuan e Luxor al Delta, sul Mediterraneo e nei pressi del Canale di Suez.
E proprio accanto all'idrovia progettata nell'Ottocento dal trentino Luigi Negrelli è al lavoro una missione interdisciplinare del Consiglio Nazionale delle Ricerche Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale (ISPC) impegnata nella ricerca del mitico «Canale dei faraoni» di cui parlò Erodoto e poi Strabone e, in epoca romana, Plinio il Vecchio. Si trattava di un tracciato navigabile che sfruttava le piene del Nilo e s'inoltrava dal delta sino al Cairo per proseguire verso sud e sfociare nel Mar Rosso presso l'attuale Suez. Per secoli, sebbene in modo intermittente, l'arteria liquida assicurò i traffici tra il Mediterraneo e l'Oriente sinché, dopo la conquista araba dell'Egitto, nel 767 d.C. il califfo el-Mansour ne ordinò l'interramento e se ne persero le tracce.
Nel 2012 la missione, guidata dalla professoressa Giuseppina Capriotti Vittozzi e attualmente da Andrea Angelini, ha individuato nel sito di Tell el Maskuhuta, 17 chilometri a ovest di Ismailia, il luogo adatto per le ricerche. Una scelta non casuale ma basata su tecniche assolutamente innovative fornite dall'Agenzia Spaziale Italiana. Quest'inedita sinergia tra eccellenze italiane ha permesso il telerilevamento satellitare (il SatER, Satellite Remote Sensing in support to the Egyptological Research), che consente la lettura di immagini rilevate da strumenti imbarcati sui satelliti dell'ASI, i COSMO-SkyMed utilizzati anche dall'European Space Agency e dalla Scuola di Aerocooperazione del Ministero della Difesa. Come spiega la professoressa Capriotti: «Il radar imbarcato (Synthetic Aperture Radar) invia verso il suolo fasci di impulsi elettromagnetici nelle microonde durante il volo orbitale. L'interazione tra gli impulsi emessi e la superficie terrestre genera nella maggioranza dei casi la ridistribuzione dell'energia radar in varie direzioni e, quindi, anche verso il satellite stesso. L'ampiezza e la fase delle eco di ritorno degli impulsi sono misurate insieme al tempo di ritorno del segnale e costituiscono l'informazione di base. I valori di ampiezza sono utilizzati per generare immagini, nelle quali i valori radiometrici illustrano le caratteristiche di rugosità, costante dielettrica e umidità della superficie e degli oggetti illuminati, mentre i dati relativi ai valori di fase sono elaborati per estrarre informazioni topografiche tramite tecniche interferometriche. Pertanto, applicando la interferometria SAR ai dati è possibile ricostruire la tridimensionalità del terreno».
Le informazioni ricevute dal cielo sono state confrontate con le prospezioni geofisiche, condotte in collaborazione con l'Università del Molise. In una sorta di gigantesca scansione di aree non ancora scavate, è stata utilizzata la metodologia elettromagnetica induttiva attraverso l'uso del Profiler. Ne è scaturita una mappa di anomalie che facevano intuire strutture sepolte.
Infine nel gennaio 2016 è stata ritrovata la struttura di una fortezza grande almeno 200 per 300 metri sicuramente uno dei crocevia dell'antica idrovia, come ha confermato il materiale ceramico ritrovato munita, come racconta la docente, «da possenti muri perfettamente conservati, larghi fino a 8 metri e alti più di 6». Ma le sorprese non erano terminate: nel 2017 in una duna vicina è stato ritrovato un enorme muro, alto ancora circa 8 metri fuori terra e spesso 22 metri.
Forti dei risultati ottenuti e delle tecniche impiegate, i nostri «Indiana Jones» continuano la caccia al canale faraonico. Senza mai rinunciare, come sottolinea con orgoglio la professoressa Capriotti, «all'occhio dell'archeologo, che resta sempre fondamentale in ogni scavo».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.