Il Camus "pubblico" diceva argute banalità

Quanto i libri sono forti e disturbanti, tanto le parole da star letteraria suonano rassicuranti

Il Camus "pubblico" diceva argute banalità

A Stoccolma, due settimane prima del Natale 1957, Albert Camus, come sempre, disse cose buone & giuste. «Non posso vivere, personalmente, senza la mia arte. Ma non ho mai posto questa arte al di sopra di tutto», disse. Disse che «Il ruolo dello scrittore comporta doveri difficili. Per definizione non può mettersi, oggi, al servizio di coloro che fanno la storia: è al servizio di coloro che la subiscono». Camus era bello, famoso, aitante; aveva fatto la resistenza, scritto libri importanti. Sapeva parlare; toccava, di qualsiasi tema, il nervo scoperto, il roveto ardente. Nessuno più di lui meritava il Nobel per la letteratura (quell'anno erano stati nominati, per l'Italia, Riccardo Bacchelli e Ignazio Silone).

Nello stesso anno, per l'edizione americana di Lolita, Vladimir Nabokov esplicita, nelle Note, una idea di letteratura opposta: «Per me un'opera di narrativa esiste solo se mi procura quella che chiamerò voluttà estetica». È difficile pensare a due scrittori così profondamente impaniati nella Storia e tanto diversi. «Ci sono volte in cui l'arte è un lusso menzognero», dice Camus, dal pulpito dell'Università di Uppsala, «L'arte per l'arte, lo svago di un artista solitario è per l'appunto l'arte artificiale di una società fasulla e astratta. Il suo esito logico è l'arte da salotti». Nabokov, fuggito, ventenne, dalla Rivoluzione russa, e, adulto, dal morso nazista (il fratello Sergei, «uomo innocuo, sensibile, indifeso, che sapeva commuoversi», muore nel campo di Neuengamme, nei pressi di Amburgo, lo stesso in cui morirà il fratellastro di André Malraux, con il numero 28631 stampato addosso), non era d'accordo. «Un'opera d'arte non ha nessunissima importanza per la società. È importante solo per l'individuo, e a me importa solo il singolo lettore. Me ne infischio del gruppo, delle comunità, delle masse... Anche se il motto arte per l'arte non mi va a genio... non c'è dubbio che ciò che salva un'opera di narrativa dai bachi e dalla ruggine non è la sua importanza sociale ma la sua arte, soltanto l'arte».

Nabokov vigilava su ogni fenomeno grammaticale: intervistarlo era un'eresia, una fatica himalayana. Rispondeva in forma scritta, «e le risposte devono essere riprodotte alla lettera». Al contrario, Camus si donava, spigliato, parlava a braccio, sorrideva, sapeva essere felice, «Era un uomo semplice», come ricorda, il 6 gennaio del 1960, Dino Buzzati in un memorabile coccodrillo. Severo, intransigente, antipatico, aristotelico e aristocratico, Nabokov non amava l'opera di Camus: «Ci sono molti autori riconosciuti che per me semplicemente non esistono. I loro nomi sono incisi su tombe vuote, i loro libri sono fantocci e loro stessi sono nullità totali. Brecht, Faulkner, Camus per me non significano un bel niente». Secondo Nabokov lo scrittore doveva unicamente impegnarsi a scrivere un libro eccellente; per Camus un artista aveva l'onere dell'impegno sociale. Il concetto del bell'Albert, aureo in generale, è corrotto nel particolare: di solito l'artista, quando è chiamato a esprimere un'opinione, non va oltre la soglia di argute banalità.

Lo dimostra, con cauto cinismo, la raccolta di Conferenze e discorsi 1937-1958 edita da Gallimard nel 2006 e ora proposta da Bompiani (pagg. 336, euro 22, traduzione di Yasmina Melaouah). Dopo la pubblicazione di Il mito di Sisifo e Lo straniero, Camus diventa una specie di superstar della letteratura: auspica «la creazione di un universalismo in cui potranno ritrovarsi tutti gli uomini di buona volontà» (negli Stati Uniti, è il 1946), divaga sulla libertà («un principio su cui non si può transigere»), spera nella «soppressione universale della pena di morte» come nella fine di ogni forma di censura, perché «Quando l'intelligenza è imbavagliata, di lì a poco anche il lavoratore è oppresso».

Letto oggi, Camus conforta perché dice ciò che vogliamo sentirci dire. Non c'è frizione né frattura nelle sue parole, manca quel sottile senso di fastidio che si prova ascoltando lo scrittore, che quando è grande ci mostra il sottosuolo, il verminaio, l'abisso. Il Dostoevskij tanto amato da Camus (descritto, nel 1955, con flebile didascalia: «ha saputo riconoscere il nichilismo contemporaneo, definirlo, prevederne le conseguenze mostruose»), ad esempio, nei suoi articoli continua a essere il cane rabbioso con gli occhi iniettati di sangue, che morde e ci trascina fino al luogo dell'assassinio. Poi, certo, Camus è Camus, e, al netto delle inevitabili ripetizioni e di una certa fiacchezza argomentativa, è efficace quando chiede di «ridimensionare la politica attribuendole il ruolo secondario che le spetta... far funzionare le cose, non risolvere i nostri problemi interiori», intuisce che «la malattia dell'Europa» è «il virus dell'efficienza... che significa volontà di predominio», è l'uomo elevato a Dio («Se l'uomo è diventato Dio, lasciateci dire che è diventato poca cosa... Mai nel mondo hanno regnato dèi tanto meschini»), massacra la «cultura staliniana» dove «non c'è spazio per niente se non per i sermoni edificanti, la vita grigia e il catechismo della propaganda», ricorda che «l'azione politica e la creazione sono le due facce di una stessa medaglia... ma Napoleone Bonaparte ci ha lasciato il tamburo nei licei e Goethe le Elegie romane», che l'arte non può essere serva dell'ideologia perché questa è transitoria, sorella della corruzione, mentre la prima punta all'eterno, cioè all'uomo.

Eppure, infine, anche quando è trascinante, Camus non affonda, è come impastoiato in un ruolo che non gli appartiene. Dopo il Camus pubblico, tigre tra le mannaie del pubblico sovrano, è quello privato che dovremmo leggere, finalmente, in Italia. Quello che con Louis Guilloux (scrittore di Sangue nero, da riscoprire) si lamenta della banalità della fama («La peste è uscito. Il successo mi lascia perplesso. C'è un plauso di fondo, un riconoscimento continuo, che mi infastidisce»), quello dei dialoghi potenti con René Char («Non mi rassegno a vedere che la vita non ha senso, che non ha sangue.

Il solo viso che abbia conosciuto è quello del sofferente»), che confessa i propri tradimenti a Nicola Chiaromonte (la Correspondance tra lo scrittore e l'intellettuale italiano è stata pubblicata da Gallimard l'anno scorso, per la cura di Samantha Novello) e che scrive, traboccante di desiderio, all'attrice Maria Casarès («Nel sangue scorre un'impazienza che mi fa male, una voglia di bruciare tutto, di divorare tutto»; l'epistolario, edito nel 2017 da Gallimard, ha avuto, tra l'altro, un successo in platino). Da una parte il pupazzo per i fotografi, dall'altra l'uomo dilaniato, che fa razzia di sé. Preferisco quest'ultimo.

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