«A meritare il Nobel era Silone. Silone parla a tutta l'Europa. Se io mi sento legato a lui, è perché egli è nello stesso tempo incredibilmente radicato nella sua tradizione nazionale e anche provinciale». Lo scrive Albert Camus in una lettera del 1957 a Selma Weil, madre di Simone. Il 1957, proprio l'anno in cui l'autore franco-algerino ottenne dall'Accademia di Svezia il più prestigioso premio letterario. A proposito di Vino e pane, il secondo romanzo dell'abruzzese, apparso doppiamente esule (ovvero in tedesco e in Svizzera) nel '37, e nel '38 in Italia, Camus aveva affermato, in un articolo per Alger républicain del maggio '39: «Se la parola poesia ha un senso, è qua che la ritrovi, in questo spaccato di un'Italia eterna e rustica, in queste descrizioni di cipressi e di cieli senza eguali e nei gesti secolari di questi contadini italiani». E soprattutto, passando sul versante sociale e politico: «Il militante convinto troppo in fretta sta al vero rivoluzionario come il bigotto sta al mistico. Perché la grandezza di una fede si misura con i suoi dubbi. E quello che investe Pietro Sacca (il protagonista del romanzo, ndr) nessun militante sincero, proveniente dal popolo e deciso a difenderne la dignità, può ignorarlo. L'angoscia che coglie il rivoluzionario italiano è la stessa che dà al libro di Silone la sua vivacità cupa e la sua amarezza».
E Fontamara? Possibile che Camus non conoscesse il libro più famoso di Silone che aveva preceduto Vino e pane di quattro anni (sempre in Svizzera - soltanto nel '45 edito in Italia)? Eppure era apparso in francese nel novembre '34 da Rieder, a Parigi, tradotto da Jean-Paul Samson. E un mese dopo sul giornale socialista Le Populaire ne era comparsa la pubblicità che recitava: «Un cri de révolte». Strano che chi ha scritto L'uomo in rivolta non lo citi mai...
Infatti, suonava strano anche a uno studioso sia di Silone, sia di Camus: Alessandro Bresolin. Il quale, per togliersi il dubbio sorto in lui lavorando a un saggio sul rapporto umano, politico e artistico che legava Silone e Camus, Come semi sotto la neve, s'è messo a consultare articoli e recensioni presenti sulle riviste che Camus leggeva o alle quali collaborava. Così, sul numero del 28 febbraio '35 di Alger-étudiant, testata cui Camus ha scritto fra il '32 e il '34, ha visto spuntare un tale «JOB» che dedica a Fontamara, letta nell'edizione Rieder, una specie di scheda-libro, breve ma ficcante: «Il libro è politico. È antifascista, ma quello che ci interessa non è tanto l'intenzione e il fine, quanto il risultato raggiunto. (...) I fontamaresi, poveri contadini dell'Italia meridionale, non hanno capito nulla del cambio di regime. Rimangono immobili mentre gli eventi si susseguono al ritmo di una cavalcata. Fanno pensare a certi contadini spagnoli che credono che Alfonso XIII regni ancora. Ignazio Silone prende in prestito lo spirito di Voltaire per parlarci degli eccessi del nuovo regime».
Ma chi è quel JOB? La risposta è ora in un altro saggio di Bresolin che nel titolo, Sofferente e fumatore (Castelvecchi, pagg. 152, euro 18,50), contiene una constatazione e un indizio, e nel sottotitolo, Camus e la bilancia di Giobbe, la soluzione di questo giallo editoriale che ha valenza anche come prospettiva filosofica. La constatazione è nella malattia di Camus, la tubercolosi, e l'indizio è il suo vizio del fumo: un conflitto insanabile. La soluzione, lo si sarà già capito, è l'equazione Camus uguale JOB. Infine la prospettiva filosofica è quella che potremmo chiamare dell'esistenzialismo nordafricano, radicato nel Medio Oriente di Giobbe, il quale oltretutto era uno Straniero, per il popolo d'Israele... Le appassionate e appassionanti ricerche di Bresolin spaziano fra le letture di Camus e la sua tesi di laurea, Metafisica cristiana e neoplatonismo, discussa un anno dopo l'uscita della scheda-libro su Fontamara; fra l'antisemitismo islamico acceso da JOB, inteso come la marca di sigarette preferita dallo scrittore, e l'illuminato sceicco Tayeb El Okbi, creatore dell'Unione dei credenti monoteisti; dalla militanza a sinistra alle critiche alla sinistra.
Quando Camus scrive su Alger-étudiant la micro-recensione di Fontamara firmata JOB, cui ne seguiranno altre quattro fra marzo e aprile '35, ha ventidue anni. Ed è già da tempo affascinato dal tema della consonanza tra la filosofia greca e il cristianesimo. Ateo, propende per la prima, ma ciò lo porta a indagare i rapporti tra il neoplatonismo e il cristianesimo evangelico. E, andando a ritroso, nel Vecchio Testamento incontra il suo uomo, l'incarnazione dei dubbi, delle inquietudini, delle tentazioni, della protesta e di quel «cri de révolte» la cui lontana eco risuona anche in Silone. Il suo uomo è Giobbe. Disse nel 2013 il cardinale Gianfranco Ravasi in un intervento pubblico in Francia: «Il mio incontro diretto con Albert Camus al di là delle mie letture giovanili avvenne sorprendentemente nel campo accademico dell'esegesi biblica a cui ero allora dedicato. Stavo, infatti, preparando un commentario a uno dei capolavori in assoluto delle Sacre Scritture e della stessa letteratura mondiale, il Libro di Giobbe. Fu in quell'occasione che misi direttamente a confronto le interrogazioni laceranti del celebre protagonista biblico con la tormentata ricerca che percorre uno dei testi più noti e letti dello scrittore dell'algerina Mondovi, La peste. Non per nulla egli aveva affermato che tutta la terra e quindi tutta la storia sono disegnate in modo tale che il viso dell'uomo si sollevi e lo sguardo, la mente e il cuore dell'uomo lancino un'interrogazione e cerchino una risposta».
In Giobbe, il nordafricano Camus trova la fonte di un fiume esistenzialista che poco o nulla ha da spartire con la corrente parigina di Sartre. La linea è questa: Giobbe, Pascal, Kierkegaard, Nietzsche, Dostoevskij, estov, l'autore di Sulla bilancia di Giobbe. «Soffrire, passa, aver sofferto, resta», fa dire Renaud Icard al suo Job nella pièce teatrale edita da Cahiers du Sud nel dicembre '34. «Siete tutti dei consolatori molesti», dice il Giobbe biblico ai suoi amici. In fondo, ma proprio in fondo, Giobbe è per Camus un altro Sisifo, dunque diremo: «Il faut imaginer Job heureux». Heureux, contento sì, ma sempre pronto alla rivolta.
Lo certifica in un'intervista del '45: «Accettare l'assurdità di tutto quello che ci circonda è una tappa, un'esperienza necessaria: non deve diventare un vicolo cieco. Suscita una rivolta che può diventare feconda. Un'analisi della nozione di rivolta potrebbe aiutarci a scoprire concetti capaci di restituire all'esistenza un senso relativo, per quanto sempre minacciato».
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