La malapianta dell'antifascismo in assenza di fascismo, quasi mai è stata percepita nelle sue reali dimensioni. Pur non sussistendo alcuna minaccia alla democrazia questo monito ha infatti trapassato indenne molte generazioni vestendo ogni volta panni nuovi. La battaglia che però intende perorare è sempre la stessa, semplificata al massimo grado nello schema manicheo che divide i cittadini di serie A da quelli di serie B, e che venne narrata con cipiglio saccente da Umberto Eco nel suo catechismo Ur. Una sorta di gioco dell'oca in cui si riproducevano dicotomie infeconde tra cittadini civilizzati ed evoluti ed altri meno avvezzi alle pratiche democratiche, rozzi elettori pronti a farsi stordire dalle sirene populistiche e magari lesti a menar le mani. Un canovaccio con la carica virulenta di un moralismo settario che anche oggi si nutre di ottusi schemi mentali, drastici criteri di giudizio e moniti dai toni imperativi. Le cause sono evidenti. Il fascismo non viene storicizzato perché non sottraendo la guerra civile da questa assillante politicizzazione si innesta la possibilità che dosi massicce di moralismo possano rovesciarsi nel dibattito pubblico e su ogni singolo tema. Una sciocca dichiarazione del più marginale consigliere comunale, un convegno pubblico in cui si manifesti anche una benché minima perplessità sulla pratica abortiva o su questioni bioetiche, una decretazione più selettiva e vigorosa sui flussi migratori, e in una frazione di secondo decolla la litania del risorgente nazionalismo, dell'abominio razziale o dell'omofobia dilagante. L'antifascismo militante ha sempre tentato connessioni tra il Ventennio e ogni successiva fase ma oggi il richiamo insensato e cervellotico al «pericolo nero» si muove su altri piani.
Fa bene Daniele Capezzone a confutarne con sarcasmo le antiche litanie ma soprattutto a tracciare con minuzia le nuove coordinate in E basta con 'sto fascismo (Piemme, pagg. 256, euro 18,90) perché lo scopo resta il medesimo: tradurre la professione di antifascismo in consenso e relegare all'angolo l'avversario dipingendolo come nemico assoluto. Non si rimarca più l'ancestrale e stantia questione del nostalgismo, l'uso anacronistico del passato con il correlato di tutta la chincaglieria evocativa, dai simboli ai saluti romani, dalle parole d'ordine ai gadget, ma si brandiscono deduzioni più sofisticate che intercettano le questioni della contemporaneità. Oltre alla fascistizzazione perenne di ogni contesto che non sia etichettabile come progressista e di sinistra, si sta mettendo in pericolo la libertà di parola e legittimando il conformismo di massa.
La chiave di lettura per comprendere questo perverso intreccio di convergenze tra chi sbraita contro il fascismo eterno e chi impegna il suo tempo per zittire qualunque voce dissonante è data dalle nuove forme di censura. Dalla follia woke che pervade come un cancro l'intero Occidente all'allucinazione insensata della cancel culture, dalla dittatura della neo-lingua alla paranoia sessuofobica del MeToo, si sperimenta la riprovazione morale e il pedagogismo di massa.
Una sorta di paradosso, se non proprio di nemesi: i finti guardiani della libertà che vorrebbero preservarci dai pericoli della tirannia rappresentano essi stessi, con le loro teorie e le loro condotte politiche, le radure più avanzate del conformismo.
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