I tempi sono maturi perché nel tempio scaligero un'opera del Seicento colga un successo franco come accaduto al Teatro alla Scala per l'Orontea di Antonio Cesti. L'esito dipende sempre dalla guida musicale, come testimoniarono in passato gli esperimenti soporiferi dedicati a Monteverdi, affogati da tempi monotoni e regie al rallentatore. Al contrario il direttore di quest'opera di alta qualità musicale, Giovanni Antonini, ha guidato un ensemble scaligero con la tenacia elettrizzante della sua concertazione raffinatamente fraseggiata e senza cadute di tensione. I gustosi capricci di inserire a modo di ouverture e intermezzi brani di alcuni autori secenteschi (Castello, Marini) venivano incontro alle esigenze della messa in scena, affidata a Robert Carsen, trasportatore del complesso dramma in uno spazio contemporaneo asettico. Tutti gesticolano appropriatamente, agiscono secondo un copione ben rodato, ma cosa succede (l'azione) ce lo dice solo la musica. Su questo versante (perdonino gli altri otto ottimi solisti), il fuori categoria era Carlo Vistoli, un esempio preclaro di controtenore dalla musicalità sicura, dal gusto netto, dalla pronuncia chiara; incisivo nei recitativi, intenso negli ariosi, scatenato nelle foghe amorose.
Un artista che aderisce a tutte le necessità richieste dal recitar cantando: non si limita a emettere quei suoni che altri rendono manierati o gallinacei, ma proietta il suo canto a rendere credibile e naturale l'artificiosa retorica secentesca.
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