Che dolore, io ho già visto morire "l'Unità"

Il nostro collaboratore racconta i suoi 24 anni in quella redazione: "Da cassintegrato il tempo libero è un incubo. Nel 2000 la chiusura. Allora si sbagliò a non ristrutturare. Epifani e la cordata amica? Già sentita troppe volte"

Che dolore, io ho già visto morire "l'Unità"

Ancora oggi c’è chi mi chiede: «Come vanno le cose all’Unità? Ho sentito che avete dei problemi». Quando capita, sfodero il mio sorriso più paziente e rispondo: «Sai, sono otto anni che non scrivo più su quel giornale». Esattamente da quando, rientrato da collaboratore sotto la direzione yé-yé di Colombo e Padellaro, fui bersagliato da un insinuante «mobbing» per aver scritto sul Foglio nei mesi successivi alla brutale chiusura del luglio 2000.

Dovevo vivere, la cassa integrazione prevedeva appena un milione e 380mila lire al mese (d’accordo, sempre più di quanto percepiva l’operaio di Piombino nel bel film di Paolo Virzì «La bella vita»); e così, per sfuggire al senso di spoliazione, inutilità e umiliazione che la condizione assistita si trascina dietro, avevo chiesto aiuto a Giuliano Ferrara. L’accusa di «tradimento», o giù di lì, scattò quasi subito. Capii che era finita una stagione della mia vita, durata 24 anni. Meglio andarsene prima di diventare un peso, senza acrimonia, come succede tra due innamorati che non si pigliano più. Per fortuna arrivò una proposta dal Giornale, il che mi procurò i seguenti epiteti, alcuni dei quali condivisi da qualche mio ex collega: «puttana di regime», «verme della terra», «servo di Urbani» e via complimentando.

Eppure io voglio bene all’Unità. Anche a quella by Concita. La compro spesso, magari mi arrabbio per via di certe scivolate di stile, tra estremismo e retorica, non vi ritrovo più le firme care, fatico un po’ a rintracciare gli articoli che mi interessano e tuttavia la considero ancora un pezzo di me. Soffro a leggere che il giornale rosso è di nuovo «in rosso», riassaporo il gusto amaro delle assemblee, degli scioperi, dei comunicati. Ventiquattro anni, dicevo, cioè dodici scatti di anzianità, una dozzina di direttori, due sedi cambiate, una pioggia di ricordi.

Vi arrivai nel 1976, dalla piccola redazione di Ancona, per una sostituzione estiva: dovevano essere venti giorni, giusto per imparare a far titoli e pratica in tipografia, diventò un’assunzione inattesa. Avevo 21 anni, il primo stipendio da praticante - 309mila lire - me lo soffiarono i ladri entrando nottetempo nell’appartamentino affittato con due colleghi oggi importanti: Raimondo Bultrini da Terni, Gianni de Rosas da Sassari. L’amministratore fu magnanimo. Nella mitica sede di via dei Taurini, un palazzone di vari piani a ridosso dell’università La Sapienza, l’Unità stava al secondo, Paese Sera al terzo: noi eravamo pagati più o meno come metalmeccanici, loro già come giornalisti sotto regolare contratto. Eppure era emozionante entrarvi ogni mattina alle 10, partecipare alle riunioni, chiacchierare con firme del calibro di Ugo Baduel, Arminio Savioli, Alberto Jacoviello, Luisa Melograni.

Chiamato a redigere le cronache regionali, sotto l’insegnamento del rude irpino Antonio Zollo, imparai a disegnare menabò, scegliere foto e caratteri tipografici, fare titoli, tagliare i pezzi. Poi l’occasione di tornare a scrivere: prima di musica rock, più tardi di cinema. Il sogno di ogni giornalista. Pagavano poco, vero, ma l’ingresso nel mestiere era veloce, naturale. A 23 anni già giornalista professionista (e non per particolari meriti).

Comunista? Certo, per reazione ai gruppi extraparlamentari che avevo bazzicato da ragazzo, perché il Pci rappresentava un salto nella realtà, nel fare, nella politica senza P38. Stavo con lo Stato e contro le Br e la cosa divenne ancora più chiara quando colleghi come Sergio Criscuoli o Wladimiro Settimelli furono costretti ad armarsi di pistola nell’eventualità di un agguato brigatista. Ho ancora in mente i tic dei direttori. Quanti me ne sono passati davanti? Provo a ricordare. L’elegante Tortorella, il fascinoso Pavolini, il vanesio Reichlin («dobbiamo condurre una polemica alta, a cazzo sfoderato», teorizzava in riunione), lo scalpitante Petruccioli (poi punito per la vicenda di Marina Maresca), l’entusiasta Macaluso, il lucido Chiaromonte, l’urticante D’Alema, il propositivo Foa (il primo a non venire dalla nomenklatura), il vulcanico Veltroni, il gentile Caldarola, l’odioso Fuccillo, il confusionario Gambescia, di nuovo Caldarola, ormai estenuato dalla crisi, ingannato dal partito fino all’ultimo: quel pomeriggio del 27 luglio 2000 quando Victor Uckmar, nel bel mezzo di un’assemblea con D’Alema, comunicò che si chiudeva.

Lo so, molti non mi credono: dici l’Unità e pensi a un giornale irreggimentato, ortodosso, sotto l’occhiuto sguardo di Botteghe Oscure. Ma il sottoscritto uscì dal Pci nel 1984, con l’arrivo di Natta alla segreteria dopo la morte di Berlinguer, e nessuno mi chiese conto di nulla, neanche il segretario della cellula. Semplicemente comunicai che non avrei più pagato le quote della tessera. Nonostante la concorrenza agguerrita di Repubblica, il giornale degli intelligenti, l’Unità vendeva bene in edicola: per il 1° maggio stampavamo sempre un milione di copie (la prima edizione girava alle 8 di sera), con una media giornaliera, tra domeniche e abbonamenti, di circa 200mila copie, scese a 156mila nel 1990. Certo, eravamo in tanti, un’enormità: 230 giornalisti, tra Roma, Milano e redazioni locali. Gasati dalle cassette e dalle figurine di Veltroni, mentre il Pci andava liquefacendosi sotto i colpi della storia, ci parve di poter resistere alla crisi difendendo quella struttura elefantiaca, da Corriere della Sera.

Qualche tempo dopo, con Veltroni in volo verso Palazzo Chigi, dovemmo accettare obtorto collo la proposta di Cofferati: «patti di solidarietà», cioè lavorare (e guadagnare) meno per lavorare tutti. Non poteva reggere, bisognava incidere il bubbone, ristrutturare sul serio: invece ci si cullò nell’illusione di riuscire fare un giornale aggressivo e informato lavorando venti giorni al mese. Alla fine dei giochi non saprei dire chi abbia davvero incastrato l’Unità (pure quest’ultima in minigonna). Giampaolo Pansa ipotizza tre killer, Veltroni, Soru ed Ezio Mauro di Repubblica; Marco Travaglio sostiene che «i notabili di partito sono tornati a sventolarla come se fosse roba loro»; Epifani, in cerca di un giornale amico, starebbe inseguendo una cordata di imprenditori amici.

Già sentito, troppe volte. Naturalmente mi auguro che alla fine una soluzione venga fuori. Ho già visto morire una volta l’Unità, e hai voglia a citare il vecchio adagio di Montaigne, secondo il quale «bisogna imparare a sopportare quello che non si può evitare». Ho sotto gli occhi i versi di una poesia di Letizia Muratori, mai pubblicata, che recita tra l’altro: «Foglio dimagrito, offeso, trascurato / foglio sobrio, troppo rivendicato».

E ricordo colleghi disperati, decisi a tutto, anche a reinventarsi come vice-skipper e cuoco su una barca a vela, per non sprofondare nel limbo mesto e appiccicoso che avvelena l’esistenza. Perché il tempo libero, quando ce n’è tanto e non porta riposo, diventa un incubo. Una lettera scarlatta con una grande C: come «cassintegrato».

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