da Beirut
Alle porte della valle della Bekaa la strada si arrampica attraverso colline verdi e casette contadine finite a metà. È una regione a maggioranza drusa. Questa minoranza religiosa è più attenta all'ambiente e qui la natura è rimasta quasi incontaminata. Gli alberi sono già in fiore ma sui monti che quasi si possono toccare c'è ancora la neve. Fino al 2005, prima dell'assassinio del premier Rafik Hariri, la zona era controllata dai siriani. Ora le tracce della guerra sono cancellate. Si susseguono terreni con mais, verdure, grano, frutta. Poi una strada sterrata conduce al campo di Chtoura. Come una prigione, è circondato dal filo spinato e le baracche sono costruite con teloni dell'Unhcr e pali di legno. I rifugiati hanno appeso coperte colorate di lana che utilizzano per ripararsi dal freddo nella notte sui rami degli alberi all'ingresso. La cucina è angusta, ci sono delle provviste in barattoli di vetro, conserve. Il bagno è fatiscente, alcune tinozze blu dove le persone del campo si lavano.
Sono le condizioni terribili dei rifugiati siriani in Libano. Il Paese, più piccolo dell'Abruzzo, ha accolto al suo interno quasi due milioni di siriani, 1,5 secondo stime dell'Unhcr, che assieme a circa 200 Ong gestisce aiuti per quasi mezzo miliardo di dollari all'anno. Per il governo i siriani non hanno lo status di rifugiati ma sono «displaced», sfollati. Il Libano infatti non ha firmato l'Accordo di Ginevra sui rifugiati. La posizione di Beirut è chiara: il Paese non li può più accogliere perché è in corso una grave crisi economica, sociale e demografica. Il Libano non può fornire luce, acqua, infrastrutture, ospedali, cibo, non ha le risorse finanziarie sufficienti per garantire una vita dignitosa ai rifugiati. Ora che il presidente siriano Bashar al-Assad ha vinto la guerra e gran parte del territorio è tornato sotto il suo controllo, non ci sono ragioni, secondo il governo, perché gli sfollati non ritornino in Siria.
Ma l'Onu e le ong puntano i piedi. «Fino a poco tempo fa facevano compilare un questionario che di fatto dissuadeva i profughi a tornare e li obbligavano a rimanere», spiegano fonti riservate. L'Unhcr chiedeva il luogo in cui volessero ritornare, le ragioni, quando, se avessero qualche preoccupazione a riguardo, e ancora se fossero in possesso di tutti i documenti necessari. «Una serie di domande che di fatto instillavano dubbi e scoraggiavano il rientro», chiarisce la fonte. Ora l'Onu ha cambiato posizione. Se vogliono i rifugiati possono ritornare, ma non sono aiutati nel rimpatrio. «L'ammorbidimento della posizione dell'Unhcr - secondo la fonte -, è avvenuta anche perché il governo aveva congelato il rinnovo dei permessi di soggiorno dei funzionari dell'Unhcr. E tra l'altro esiste già un'iniziativa russa per fare ritornare i rifugiati in Siria». Ma fonti governative sottolineano che «l'Onu scoraggia il ritorno perché altrimenti dovrebbe ammettere che in Siria stia avvenendo una transizione pacifica. Sarebbe obbligato così a partecipare alla ricostruzione del Paese». Il premier Saad Hariri appoggiava inizialmente la posizione dell'Onu e delle ong, voleva cioè che fosse garantito un ritorno «sicuro» dei rifugiati nella propria terra. Ora secondo fonti governative «pare che anche il premier si sia allineato sulla posizione del rimpatrio».
Fra i due fuochi ci sono i siriani che non sanno cosa fare. Come Aisha, 31 anni, di Aleppo, studiava letteratura araba e il suo sogno era fare la giornalista. Indossa un vestito a quadri scuro e porta un velo blu sui capelli. Ha occhi profondi neri e carichi di speranza. «Vogliamo che ci siano garantite le condizioni minime di sicurezza. Non crediamo in nessun partito in Siria». Ma se fosse garantita la sicurezza torneresti? «Akiid, certo, ognuno vuole vivere nel proprio Paese. Qui sono una rifugiata, sono di seconda categoria. Non sono considerata una libanese, non ho gli stessi diritti. La nostra vita è come questo bicchiere di acqua, si è rotto e fatto in mille pezzettini, ma noi possiamo mettere insieme le parti e farne un bicchiere ancora più bello». Nel campo si riuniscono per chiacchierare, la sera, in una tenda con una piccola stufa al centro, per terra qualche vecchio e consumato tappeto e alcuni cuscini rossi di cotone su cui sedersi. Walid, ha 36 anni, dà il latte con il biberon alla sua bambina con un vestitino colorato e le scarpette rosa. «Ho perso due bambini e mia moglie. Ora ho soltanto lei. Non lavoro da sette mesi. E se ritorno in Siria verrò considerato un oppositore del regime solo per il fatto che sono scappato».
In un angolo della tenda siede Ammouna, è la nonna del campo. Non ricorda bene la sua età, forse, dicono gli altri, ha 60 anni. Ha un velo viola attorno alla testa e un vestito nero con dei fiori bianchi. Con rabbia si fa avanti e dice: «Quando tutto sarà normale io ritornerò. Tu credi che non vorremmo ritornare? Tutti qui vogliono ritornare!». Poi la interrompe Mouhammad, 38 anni, in jeans e maglietta: «Siamo in trappola non possiamo né stare qui, né con Daesh, né con il regime. Non abbiamo scampo». Falah, laureato in diritto, originario di Aleppo, in tutta azzurra chiarisce altri problemi: «Se ritorno dovrò fare il servizio militare. Non ho più la casa perché è stata distrutta. Dove dovrei vivere? Noi stiamo in mezzo, non siamo né con la Russia e Assad, né con la Turchia e la Free Syrian Army. Non abbiamo scampo. Mia madre è stata rapita sulla strada per arrivare in Libano, mio fratello è scomparso a Idlib, mio padre è morto venti giorni fa per un'embolia a 73 anni. Quando la Siria sarà ricostruita i libanesi saranno i benvenuti da noi, così come lo siamo stati noi, qui da loro». Circa 170mila siriani sono già ritornati dal Libano da dicembre 2017 e, secondo stime dell'Unhcr, l'86% di loro desidera farlo. Come Dihia, 27 anni, dalla corporatura gracile, ha già tre bambini, arriva da Raqqa, Indossa un vestito a quadri arancione e ci racconta la sua storia: «Mio padre è malato ma qui ospedali e medicine sono molto cari. Sono molto arrabbiata. Viviamo in condizioni terribili. Se potessi queste tende me le lascerei dietro una volta per tutte». L'Unhcr fornisce un mensile in contanti ad alcune delle famiglie di rifugiati più vulnerabili dal punto di vista socio-economico. Meno della metà della popolazione riceve 27 dollari a persona al mese e solo il 19% riceve 175 dollari per un'intera famiglia al mese. Ma la vita qui è veramente dura. Di recente un campo vicino ha preso fuoco ma non c'era abbastanza acqua per spegnere le fiamme. In inverno invece la pioggia ha sfondato le tende e un fiume di acqua è entrato ovunque. Mahmoud, siede su un cuscino con le gambe incrociate e spiega con calma: «Il Libano deve fare pressione sull'Onu e la comunità internazionale per aiutarci ad avere una vita dignitosa. Ringraziamo il Libano per averci accolto, ma sappiamo che siamo diventati un peso per il Paese».
Se la crisi dei rifugiati in Libano non si risolverà è probabile che si riverserà in Europa. E l'Italia è il Paese più vicino da raggiungere dal Paese dei cedri. In questa distesa di disperazione Gazi, capelli tutti bianchi a soli 35 anni, ci mostra un piccolo angolo di paradiso.
Qui ha allestito una barberia, dove taglia la barba e i capelli ai maschi del campo, per un compenso irrisorio. Ma la meraviglia è che la stanza è ricoperta alle pareti di decine di gabbiette di uccellini coloratissimi, pappagalli, canarini, che vende ai bambini. Un giardino di pace in una distesa di disperazione.
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