In Cina il boia non riposa mai

Novità non ce ne sono: la Cina ogni anno annovera più esecuzioni che tutte le altre nazioni del mondo messe insieme, e il 2008 non ha fatto eccezione. Ieri l’ha ribadito Amnesty international nel suo rapporto: su 2390 condanne a morte, 1718 avrebbero avuto luogo da quelle parti. Usiamo il condizionale perché il dato è ballerino e cambia a seconda dell’organizzazione che abbia tentato di censirlo. Non è imperizia, e neppure una scarsa trasparenza di Pechino: è proprio il buio totale, perché in Cina i dati sulla pena di morte sono segreto di stato quindi le autorità possono rendere noti i numeri che meglio credono. Secondo la maggior parte delle organizzazioni (China Aid, Laogai Research, Human Rights Watch, Nessuno tocchi Caino eccetera) i numeri ufficiosi e cioè ma veri riguarderebbero almeno 10mila persone all’anno. I più prudenti parlano di 5mila.

È certo, per esempio, che durante la campagna «colpire duro» dei primi anni 2000 furono giustiziate almeno 60mila persone, circa 15.000 all’anno: più quelle non rese note. A fare la differenza non è soltanto che i cinesi sono tanti, ma che la pena di morte resta prevista per qualche decina di reati, anche se è difficile capire quali. Prima delle Olimpiadi erano almeno 68, tra i quali ne spiccavano anche parecchi che non implicano l’uso della violenza: frode fiscale, frode con carta di credito, appropriazione indebita, contrabbando, gioco d’azzardo, bigamia, pornografia, furto d’auto, uso di automezzi rubati, violazione di domicilio, teppismo e disturbo della quiete pubblica.

Il salto di qualità sarebbe avvenuto nel 1995,quandosi passò da 28 reati appunto a una settantina. Ma non si sa nulla di preciso neanche su questo, così come poco si sa degli organi espiantati e rivenduti senza neppure il consenso dei familiari del giustiziato, giacché in Cina il corpo dei cittadini appartiene allo Stato. Anche i metodi di uccisione sono dei più vari. In caso di fucilazione e dintorni, la famiglia è anche tenuta a rifondere il costo delle pallottole. Poi c’è l’impiccagione.

Per tagliare i costi, nel 2001, l’autorità cinese sfruttò una joint venture con la Fiat per produrre dei furgoni Iveco Daily da trasformare in cosiddette camere mobili di esecuzione: camioncini usi a raggiungere direttamente il luogo delle esecuzioni affinché il malcapitato venisse legato a un lettino di metallo e poi siringato letalmente, il tutto controllato da un monitor posto accanto al posto di guida, prima di ripartire.

Amnesty international, nel dicembre del 2003, decise di scrivere alla Fiat per dissuaderla dalla funerea produzione, ma gli risposero che non erano in grado di verificare l’uso che venisse fatto dei propri veicoli da parte dell’acquirente.

Il problema andò risolto quando l’Iveco si accorse che dalle sue casse mancavano 12 milioni di euro (122 milioni di yuan) che la spinsero a denunciare il partner cinese, sicché ogni collaborazione s’interruppe. In nome dei diritti umani, certo.

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