La Cina torna alla conquista del Myanmar. Secondo un articolo pubblicato alla fine di luglio dal quotidiano The Irrawaddy, l'ondata di nuovi investimenti cinesi nel Paese è enorme. «Pechino sta pianificando di attuare progetti multimiliardari, tra cui un porto marittimo profondo, nuove città, parchi industriali, zone di cooperazione economica alle frontiere e linee ferroviarie ad alta velocità nell'ambito della sua ambiziosa iniziativa Belt and Road», afferma il giornale.
Cina e Myanmar sono sempre stati legati da un rapporto speciale, anche quando l'embargo occidentale aveva chiuso qualsiasi porta al Paese del Sud-Est asiatico. Poi, nel 2012, qualcosa sembrava essere cambiato. L'Occidente, mirando a ridurre la dipendenza di Naypyidaw proprio da Pechino, ha sostenuto che in Birmania - ribattezzata Myanmar nel 1989 - sarebbe dovuta iniziare una fantomatica transazione verso la democrazia e ha cominciato ad allentare le sanzioni economiche imposte negli anni Novanta e a investire.
Anche l'Italia, attraverso l'allora ministro degli Esteri nel governo Monti Giulio Terzi, aveva dichiarato di essere interessata «all'accesso alle gare d'appalto» in quella che molti avevano iniziato a chiamare la nuova «tigre asiatica». Parole che poi sono diventate fatti. Diverse aziende italiane, infatti, si sono recate successivamente in Myanmar per parlare di affari.
Concretamente questo processo di cambiamento sarebbe dovuto concludersi positivamente alla fine del 2015, proprio con la vittoria alle elezioni del National league for democracy (Nld), il partito guidato dal premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Ma qualcosa è andato storto e gli investitori occidentali stanno facendo dietrofront.
Guerre etniche ancora in atto, uccisioni indiscriminate, violazione dei diritti umani (il caso più eclatante è quello della minoranza Rohingya) e incertezza politica, infatti, richiamano alla Birmania del passato. Proprio come succedeva durante la sanguinaria dittatura del generale Ne Win al comando per ventisei anni, fino al novembre del 1981. Poi con Than Shwe, padre-padrone del Paese fino al 2011. E ancora oggi da quei vecchi militari che, con l'arrivo del «governo democratico» guidato dal Ndl, avrebbero dovuto appendere al chiodo armi e divise e andare in pensione.
La Birmania fa gola a tutti. Tante risorse naturali, centralità lungo una serie di rotte energetiche e commerciali (Cina e Myanmar condividono un confine lungo 2.185 chilometri), un potenziale di mercato altissimo e una manodopera a basso costo. Tutto questo è un mix perfetto a cui tutti vogliono partecipare. Pechino in primis che, nonostante i cambiamenti di questi ultimi anni, con l'entrata in gioco di Stati Uniti e Unione europea, ha continuato a muoversi nell'ombra e a intrattenere stretti rapporti con i vecchi generali che hanno ancora un grande potere nella vita politica, sociale ed economica di Naypyidaw. Rapporti che ora, visto l'enorme diminuzione di investimenti stranieri (parliamo di oltre quattro miliardi di dollari di differenza tra il biennio 2015-2016 e 2017-2018), stanno tornando alla luce del sole.
La Cina punta a sviluppare tramite il Paese del Sud-Est asiatico una nuova rotta commerciale alternativa allo Stretto di Malacca. Attraverso questo bacino d'acqua scorrono infatti i principali flussi commerciali da e per la Repubblica popolare, incluso l'80 per cento del petrolio che viene importato. Il corridoio sino-birmano consentirebbe al Dragone di ridurre notevolmente la dipendenza da questo «collo di bottiglia».
Uno dei progetti più importanti, in questo ambito, è il porto di Kyauk Phyu e il suo indotto di autostrade, gasdotti e oleodotti che collegano lo Stato Rakhine (dove sono in atto violenti scontri con l'etnia Arakan che richiede l'autonomia dal governo centrale) direttamente alla città cinese di Kunming, nello Yunnan, creando di fatto un percorso diverso al petrolio che arriva dal Medio Oriente.
Un'altra zona strategicamente interessante per Pechino è lo Stato Kachin e, guarda caso, anche quest'area è infuocata dai combattimenti tra l'esercito e i ribelli che richiedono l'autodeterminazione. Qui doveva essere realizzata nel 2011 la diga di Myitsone, sul fiume Irrawaddy. Un progetto da 3,6 miliardi di dollari, promosso in collaborazione tra il governo birmano e quello cinese, che avrebbe portato il 90% dell'elettricità prodotta in Cina. Ma avrebbe anche allagato seicento chilometri quadrati di foresta. Cosa che, ovviamente, poco importa a chi mette gli interessi prima di tutto. L'attuazione è poi stata bloccata, ma non annullata, dall'allora premier Thein Sein, ex generale dell'esercito, dopo le numerose proteste della popolazione locale.
Un anno fa il Global Times ha pubblicato un articolo dove si sosteneva che la Cina non aveva mai perso le speranze per la costruzione del progetto Myitsone. «La centrale idroelettrica è una cooperazione commerciale concordata tra i due Paesi e la sua lunga sospensione rischia di far diminuire la fiducia degli investitori», scriveva il giornale. «Il governo cinese sta cercando di trovare un modo pratico per riprendere il progetto sulla base di una collaborazione reciprocamente vantaggiosa».
Le relazioni tra Cina e Myanmar sono tornate al punto di partenza. E sembra non esserci più niente che l'Occidente possa e voglia fare per cambiare la situazione.
La cosa curiosa, però, è che gli investimenti cinesi, ridimensionati durante il precedente governo guidato da Thein Sein, sono notevolmente aumentati da quando il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi ha preso il potere. Così come si sono intensificati gli scontri con le diverse etnie.
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