"Il copione più difficile è sempre quello dei coniugi a vita"

Il regista di "Lei mi parla ancora": "Si cambia assieme, con rispetto reciproco"

Pupi Avati
Pupi Avati
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Lei mi parla ancora, il film di Pupi Avati, uscito nel 2021 e tratto dal libro scritto da Giuseppe Sgarbi, padre di Vittorio e Elisabetta, dopo la morte della moglie Rina Cavallini, compagna di vita per 65 anni, è la cornice cinematografica dell'incontro della Milanesiana che si terrà domani sera a Bormio fra il regista e i protagonisti, reali e sul grande schermo, di questa grandissima storia d'amore (ovvero Vittorio e Elisabetta Sgarbi e l'attrice Chiara Caselli).

Pupi Avati, perché Lei mi parla ancora è un film così commovente?

«Perché racconta una storia che dovrebbe essere comune e che invece, con il passare degli anni, è diventata un'eccezione: un matrimonio durato oltre sessant'anni è qualcosa di straordinario. Io ho appena festeggiato i 59 anni di matrimonio: sono nella condizione di sapere esattamente come sia».

E com'è?

«Quanto sei mutato tu, fisicamente, culturalmente e caratterialmente, nel corso di tutti questi anni, è cambiata anche lei; ma questo mutare assieme, vivendo la quotidianità con una persona, non lo si nota, ed è un vantaggio: quando guardo mia moglie, non vedo differenze con lo splendore e il fulgore di quella ragazza del 1963, quando la incontrai per la prima volta...»

Che altro?

«Hai accanto una persona che ti ha visto ragazzo e poi, nel bene e nel male, in tutte le fasi della tua vita: quando volevi diventare un grande musicista, quando avevi un lavoro normale e vendevi pesce surgelato, quando poi hai iniziato a fare cinema, fra mille difficoltà; i figli, le perdite, le mancanze, i tradimenti... Hai accanto una persona che è un hard disk che contiene tutti i file della tua vita e ti ha visto in tutte le situazioni. E alla quale, alla fine, è molto difficile mentire, anche quando ci provi, perché ti conosce troppo bene».

È una meravigliosa dichiarazione d'amore?

«È una constatazione, di riconoscenza anche, per avere evitato la solitudine fino a oggi. Sa, la vecchiaia è terrorizzante e seducente insieme».

In che modo?

«È spaventosa, perché ogni giorno può essere l'ultimo. Ma ha anche a che fare col meraviglioso: scopri che sei tornato quello che eri da ragazzo e vuoi i tuoi genitori che ti proteggano. È il circolo del tempo: dopo essere stato a lungo padre torni a essere figlio, come nel finale del Posto delle fragole».

Che cosa c'è nella storia di Giuseppe e Rina di così particolare?

«Si ripropone quella locuzione verbale, così esclusa dal mondo di oggi, che è il per sempre: quella promessa che, una volta, le persone si facevano, e che è una cosa impensabile perché la ragione ti dice che non esiste, ti dice che è applicabile solo alla morte, e invece noi, fino a trent'anni fa, la applicavamo davvero. Non erano solo canzonette: era un volersi illudere, ed era bellissimo. Oggi è tutto provvisorio, e questa precarietà si applica a tutti i ruoli, soprattutto a quelli genitoriali».

Però fare il genitore non è il mestiere più difficile del mondo?

«Io penso sia più difficile fare il marito... Il coniuge, ecco».

E essere figlio?

«È difficile, ma sa, i figli dipendono molto da come sono i genitori».

Nel suo nuovo film, La quattordicesima domenica del tempo ordinario, parla con suo padre.

«Finalmente sì. L'ho perso che avevo 12 anni. Era un uomo affascinante, bellissimo, elegante, che faceva ridere le donne... La mamma era molto gelosa. Io ero un ragazzino molto timido, bruttarello: mi sentivo di non piacere a mio padre. Così ho sognato a lungo di incontrarlo e di potergli mostrare come quella sfiducia fosse mal riposta... che ho fatto qualcosa nella vita. Lui voleva fare il produttore, ma è morto senza mai iniziare, io ho fatto 54 film».

E sua madre?

«L'ho persa tardi, vent'anni fa, aveva 86 anni. Ero già adulto».

Lei che padre è?

«Ho tre figli. Credo di essere stato un padre molto scadente agli inizi, perché pensavo molto al mio lavoro.

Poi, quando i miei figli sono stati più consapevoli, ho insegnato loro a cercare di trovare il modo per esprimere la propria identità, un lavoro che permettesse loro di dire chi sono: perché nella vita l'unico compito è dire chi siamo, e la maggior parte delle persone rinuncia a questo impegno».

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