Così la Francia madre e matrigna sta trascurando i suoi figli adottati

L'educazione sentimentale e culturale di un bimbo che ha la mamma naturale algerina e tante altre surrogate. Nella cattiva "zia" banlieue

Così la Francia madre e matrigna sta trascurando i suoi figli adottati

«È un problema di acculturazione» dice sconsolato il presidente del Tribunale dei minori di Parigi chiamato a regolarizzare la situazione del piccolo Skander. Figlio di un'algerina, che però di lui non sa, non vuole e/o non può occuparsi, fin dall'età di due anni il bambino è stato dato in affido, pur conservando la madre la patria potestà. Così è cresciuto a Parigi e ora sta in una famiglia francese, è delicato, porta gli occhiali, va bene a scuola, divora i libri «per sapere tutto. A me piaceva viaggiare». La sua ultima madre affidataria è però morta e nel cercarne un'altra la madre naturale non la vuole troppo lontana da lei, geograficamente quanto etnicamente: la vuole araba insomma, e pazienza se marocchina e non algerina...

«Devi vivere secondo la tua cultura d'origine, conformemente ai desideri di tua madre» spiega il giudice al bambino. «Mi hanno tagliato il pisello!» protesta Skander, appena reduce dalla circoncisione con tanto di henné sulla mano a celebrarla e che lui ha scambiato per cacca di piccone: «Io non volevo! E poi volevo andare dagli Hubert». Gli Hubert sono però francesi e in più abitano in campagna, «molto lontano da tua madre» continua paziente il giudice. «In questo caso mi acculturerò. Adoro mia madre, sa». Poiché anche a quest'ultima i servizi sociali hanno intanto trovato un nuovo alloggio, sia pure in una banlieue d Parigi, è qui che verrà localizzata la nuova madre affidataria. Si chiama Madame Kadija, marocchina, appunto, e una per la quale l'affido, più che un atto di devozione è una professione: «I servizi sociali pagano tutto. Lo sapevi? Vestiti, pasti, vacanze. Assolutamente tutto, da sempre. Sei sempre e solo uno stipendio, non dimenticarlo mai». Madame Kadija sta a Courseine, e arrivando in metropolitana ne vedi avvicinarsi i sobborghi «con i bar della stazione senza donne e quelle case incollate le une alle altre, con gli abitanti che raramente vedi fuori, solo in macchina o dal panettiere. Perché Parigi si era fermata a metà dell'opera?». Già, perché?

Skander è il protagonista di Le condizioni ideali (Gramma-Feltrinelli, pagg. 237, euro 18, traduzione di Elena Cappellini), romanzo d'esordio di Mokthar Amoudi, e la Courseine dove il bambino si trova da un giorno all'altro precipitato, come in un buco nero dove vige la legge del più forte è nella realtà La Courneuve, dipartimento di Seine-Saint Denis, a nord del périphérique, ovvero la tangenziale che separa la capitale da ciò che le è cresciuto intorno.

Trentasettenne, funzionario di banca, Amoudi ha scelto per il suo libro un titolo ironico, perché le «condizioni ideali» sono quelle che il sistema di assistenza sociale francese vorrebbe assicurare ai suoi figli più bisognosi e uno dei cortocircuiti del romanzo sta proprio nel fiume di denaro, di cura e di attenzione con cui le autorità cercano di incanalare in positivo il percorso scolastico-affettivo-giuridico di un bambino fino alla maggiore età a petto però di un degrado e di un abbandono urbano e urbanistico che di quel percorso è il panorama e il vissuto quotidiano, una terra di mezzo e quindi una terra di nessuno dove lo Stato non arriva più ed è la strada, la violenza, l'illegalità, a farne le veci. Da scolaro-studente modello a spacciatore incallito il passaggio è pressoché istantaneo e nello stesso tempo obbligato e se alla fine Skander, ovvero Amoudi, riuscirà a farcela è in nome di quella eccezione francese per la cultura che è uno dei suoi tratti distintivi come nazione. Non a caso, fra i tanti riconoscimenti che Le condizioni ideali ha ricevuto, il più incredibile è il Goncourt des détenus, una filiazione carceraria del più importante premio letterario d'oltralpe, a conferma, come dire, della sostanziale veridicità del romanzo riscontrata dai suoi lettori-detenuti, anche se resta l'interrogativo sui criteri con cui quella giuria venga formata e se insomma per il giurato-detenuto valgano come titoli i libri letti o i misfatti commessi...

Ben scritto, commovente e insieme divertente, come è spesso la vita vista con occhi di ragazzo, gli occhi di chi studiando la geografia del Terzo mondo si trova a «capire la legge delle nazioni: al Nord l'opulenza e al Sud la pazienza» e capisce ben presto che «nella vita o puoi o non puoi, il resto è una bugia», Le condizioni ideali, a detta di molti critici sia italiani sia francesi rimanda a La vita davanti a sé, di Romain Gary alias Émile Ajar, che alla metà degli anni '70 del Novecento inserì la banlieue e il mondo arabo nella letteratura francese.

Il rimando è interessante, ma non da un punto di vista strettamente letterario: Le condizioni ideali è un buon libro, ma La vita davanti a sé è un capolavoro, una sorta di miracolo creativo che resta un unicum, per come i caratteri sono delineati, per la lingua con cui sono raccontati. L'interesse è semmai da un punto di vista sociologico, nel senso che la periferia raccontata da Gary, Belleville, era ancora Parigi, mentre quella di Amoudi è un mondo a sé, da cui non si esce. Parigi è la grande assente del romanzo, laddove il piccolo Momò di La vita davanti a sé se ne andava in giro per Montmartre, Pigalle, le Halles... Era altresì ancora una periferia meticcia, nel senso che francesi e arabi, ma anche africani, vietnamiti eccetera, coabitavano, un intreccio che mezzo secolo dopo di fatto è scomparso. Sempre da un punto di vista sociologico, è il denaro pubblico, ovvero l'assistenza sociale, a fare la differenza fra i due romanzi. In quello di Gary, dove la prostituzione è l'unico mestiere femminile, un mestiere che però comporta la perdita della patria potestà, le madri preferiscono pagare di tasca loro chi gli tiene i figli, piuttosto che confrontarsi con un sistema in grado sì di premiare, ma anche di sorvegliare e punire. Siamo insomma in una sorta di economia precapitalistica, laddove in Le condizioni ideali è il denaro l'unico motore e con esso l'acquisto, lo sperpero, lo status che ne deriva...

Infine, e curiosamente, in entrambi i romanzi l'elemento confessionale, ovvero religioso, è assente, il che se nella Francia di mezzo secolo fa può suonare realistico, in quella attuale lo è un po' meno. Momò è allevato da Madame Rosa, che è una vecchia ex prostituta ebrea e il Corano è soltanto un libro di preghiera e non un'arma, mentre Skander non si radicalizza come musulmano, ma come malavitoso, la violenza come atto di fede, i soldi e non la guerra santa o il martirio come obiettivo finale.

E in entrambi i romanzi la salvezza è nell'arte, ovvero nella cultura, il dizionario Larousse che per Skander è una sorta di Bibbia che contiene tutto il sapere, mentre Momò vorrebbe anche lui, da grande, scrivere come Victor Hugo, I miserabili, «perché è quello che si scrive sempre quando si ha qualcosa da dire».

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