"Così ho portato 'La vedova scaltra' di Goldoni a Parigi. Per sedurre i francesi". Intervista a Giancarlo Marinelli

Il drammaturgo ci racconta come ha traghettato il genio veneto oltralpe

"Così ho portato 'La vedova scaltra' di Goldoni a Parigi. Per sedurre i francesi". Intervista a Giancarlo Marinelli

Una messe di applausi ha salutato il debutto al teatro Bouffes Parisiens di Parigi il 10 settembre scorso della La veuve rusée ovvero La vedova scaltra di Carlo Goldoni. Un cast di eccezione in scena che, oltre alla protagonista Caterina Murino nei panni della vedova, riunisce tra gli altri, grandi figli d'arte: Pierre Rochefort, figlio di Jean, Tom Leeb, figlio del comico Michel Leeb, nei panni di un affascinante quanto credibile Arlecchino, Sarah Biasini, figlia di Romy Schneider, e poi ancora lo straordinario asso nella manica della voce recitante di Pantalone, Jean Reno. Non una edizione italiana esportata in Francia, ma una operazione particolare, che vede la collaborazione tra la produzione francese di Richard Caillat CEO dei parigini Théâtre Marigny, Bouffes-Parisiens, De La Michodière e Théâtre de Paris, Théâtre e quella italiana di Rosario Coppolino, direttore della Compagnia Molière di Mario Scaccia e presidente del Quirino di Roma, con il patrocinio dell'Istituto di Cultura Italiano di Parigi. Questa co-produzione unica nel suo genere permetterà di avere in scena a Parigi la commedia fino al 24 novembre e nel 2025 una edizione italiana con un nuovo cast che avrà in comune con quello francese solo la Murino, bilingue. Trait d'union artistico e creativo del tutto, la regia di Giancarlo Marinelli, direttore di Arteven, scrittore e drammaturgo, che ha anche adattato il testo di Goldoni.

Un'impresa piena di sfide. La prima è culturale: portare Goldoni nella terra di Molière.

«Goldoni si riprende Parigi, così i commenti che riassumono il successo della prèmiere. Ma i francesi in realtà guardano da sempre a Goldoni con interesse. Non è così vero che sia considerato l'anti-Molière, anzi, anche i giovani, e nelle prime repliche ne ho visti tanti, hanno voglia di riscoprirlo e vederlo a teatro. Esiste una lunga aneddotica a proposito del fatto che lui a Parigi non ha avuto grande seguito, anzi è stato bistrattato. In realtà, come autore era così avanti rispetto al suo tempo che anche se fosse finito in Inghilterra o in Belgio difficilmente quella rivoluzione copernicana che è la riforma goldoniana avrebbe potuto avere successo».

La seconda è un regista italiano in un tempio parigino del teatro. Al momento vinta: standing ovation alla prima.

«Vero. L'attenzione alla messa in scena italiana è molto forte: mi dicono che sono il primo regista italiano che ha diretto alle Bouffes, uno dei più antichi teatri di Parigi, fondato da Offenbach, davvero considerato un tempio. Si parte per una sfida del genere con un carico di gioia e responsabilità che piano piano diventa anche spirito di patria: capisci che non rappresenti solo te stesso, ma un Paese e la tradizione di quel Paese. Non Molière, Ionesco o Tennessee Williams, ma Goldoni».

La terza, forse la più faticosa, portare in scena uno spettacolo che non è Goldoni con i sottotitoli ma un'operazione completamente diversa.

«Goldoni in italiano in Francia coi sottotitoli lo si fa, ma non si rimane in un teatro come le Bouffes per tre mesi. Quando siamo a teatro ascoltiamo un attore che parla, ma se devo anche leggere quello che dice la potenza del testo e dell'azione si indeboliscono fortemente. Quella che va in scena fino a fine novembre a Parigi è l'edizione francese della Vedova scaltra, un'edizione del tutto originale rispetto a quella che dirigerò in Italia il prossimo anno. Questo ha comportato una serie di evoluzioni e trasformazioni rispetto a ciò che accade di solito. Ho passato un anno a studiare la lingua francese, che non conoscevo. Ma lo sforzo più grande è stato entrare in un mondo e in una cultura diversi dalla nostra, con la pazienza e l'umiltà di mettersi a fare i registi con le parole e le traduzioni degli altri. Che non significa cedere a questi altri una originale purezza, ma il contrario: constatare la grandezza di un autore come Goldoni che si confronta con il loro mondo».

Che opera è la sua Vedova scaltra?

«Ho scelto la strada più difficile: non attualizzare Goldoni ma provare a cercarlo dentro al suo tempo per scoprire la modernità del 700 e quanto quel tempo sia verità oggi, quanto il rapporto con l'altro da sé possa diventare un gioco al massacro su amicizia e relazioni umane. Questa commedia è uno spartiacque tra il teatro di maschere e canovaccio e la riforma goldoniana: un teatro di solidità psicologica che fa di Goldoni il creatore assoluto del teatro che conosciamo. La commedia è del 1748: vero che la Repubblica Veneziana muore dopo, ma vero anche che nell'aria ci sono tutti i prodromi della decadenza di un'epoca. Goldoni come nessun altro ha intuito la previsione della fine potere veneziano e quella di qualcosa che inizia: la rivoluzione del teatro».

E ha messo al centro di tutto questo una donna.

«Sulla modernità nel raccontare le donne di Goldoni e su quanto le ha amate non devo commentare io: è storia. La veuve è una donna che ritorna a vivere: non ha architettato nulla dall'inizio, è davvero attratta da quattro pretendenti in egual misura. Ho cercato allora di far brillare questa attrazione, fino a che subentra la razionalità. Questa commedia è davvero elegia e sinfonia della donna, delle sue contraddizioni, potere, bellezza, fascino, magnetismo, fragilità. Un caleidoscopio straordinario che un'attrice come Caterina Murino, la vera patron dell'operazione, che ha voluto questo sbarco in Francia con tutte le sue forze, è capace di rappresentare pienamente: con un solo gesto della mano sa passare dalla Beatrice dantesca a YouPorn, sa essere carne e spirito e poi farti dimenticare l'una e l'altra cosa».

Intorno a lei, un'Europa di uomini.

«L'inglese, lo spagnolo, l'italiano e il francese sembrano l'inizio di una barzelletta, eppure sono meravigliosi proprio perché si portano appresso un intero retroterra e insieme sono scandaglio e profezia dell'animo umano: lo spagnolo che tira fuori sempre la mamma, vera previsione dei tipi freudiani oppure l'inglese illuminista che dice Inutile che vi prometta amore, vi amo quando siete più vicina ma quando non lo siete più amo qualcun'altra, che anticipa hippie e amore libero».

La cifra stilistica di questa sua regia?

«Lo spettacolo è volutamente immerso in un'atmosfera quasi favolistica. La Repubblica veneziana sta all'immaginario collettivo come l'Impero romano e epoca vittoriana: tutti li hanno idealmente vissuti e perciò la paura di tradire era grande.

Ho provato a rendere anche in modo tecnico questa grandezza attraverso le videoproiezioni di Francesco Lopergolo. Multivisione, resa dalle fiaccole della nostra epoca, i led: un'ennesima sfida artistica, vinta, all'estetica francese».

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