Film sul sogno di sognare il cinema, ambientato nella Cinecittà degli anni Cinquanta, in bilico tra la guerra appena finita e la dolce vita che sta arrivando, un po' Bellissima un po' L'amica geniale, con due spezzoni di film di genere dentro un film che vuole essere d'autore. Finalmente l'alba di Saverio Costanzo, qui regista e sceneggiatore, è una storia sul potere del cinema come avventura formativa, come finzione che ci cambia davvero.
Kolossal da 142 minuti e 30 milioni di euro, budget del tutto inusuale per le nostre produzioni, cast internazionale con Lily James e Willem Dafoe (purtroppo rimasti a casa per il noto sciopero che imperversa a Hollywood) e una giovanissima e finora sconosciuta protagonista, Rebecca Antonaci, è la seconda opera italiana presentata in concorso qui a Venezia, dove non può permettersi di non vincere almeno un premio. È un film coraggioso, italiano e ambizioso, che si confronta con gli anni d'oro del nostro cinema, come un Babylon in bianco e nero e dive da rotocalco, là l'elefante, qui un leone fuggito dal set.
La Hollywood sul Tevere, i sandaloni, le piramidi di cartapesta, le Lambrette, le feste con star, attricette, politici, sesso e squali da salotto.
Roma, primavera del 1953, nei giorni in cui sulla spiaggia di Torvaianica viene trovato il cadavere di Wilma Montesi, una ragazza di 21 anni che frequentava gli ambienti cinematografari della capitale (fu lo stesso Fellini a dire che la ragazza che Mastroianni incontra nel bar, alla fine de La dolce vita, era lei). Comunque, proprio come Wilma, Mimosa, ragazzina romana di borgata, più semplice che ingenua, finisce per caso, accompagnando la sorella maggiore, negli studi di Cinecittà, dove si stanno per concludere le riprese di un polpettone americano ambientato nell'antico Egitto. E così davanti alla ragazza, e a noi spettatori, si apre un lungo viaggio, dal mattino all'alba del giorno dopo, fra set, trattorie, chiacchiere sul cinema, sul mestiere d'attore e sulla vita, corse in macchina, party, voglia di orge, cocaina, farfallini slacciati e trucco da togliere, fazzolettino dopo fazzolettino, una volta tornate in albergo.
Se Finalmente l'alba fosse un romanzo sarebbe un Bildungsroman. Invece è sì un film di formazione - Mimosa uscirà donna dalla notte infinita, scoprendo, dice il regista, «che il coraggio non serve a ripagare le aspettative degli altri, ma a scoprire chi siamo» - ma anche una «riparazione» per l'oblio in cui è caduto il delitto, irrisolto, di Wilma Montesi. All'inizio Saverio Costanzo (che dedica la pellicola, in esergo, al padre Maurizio, «era il minimo che potessi fare») voleva fare un film sulla sua storia, poi ha cambiato idea e soggetto, e invece di far morire un'altra innocente ne ha cercato il riscatto.
Tra le cose notevoli di Finalmente l'alba. Nel film dentro il film, la sequenza del combattimento e delle torture alla Gladiatore del peplum egiziano. L'eleganza di Willem Dafoe (attore magnifico: e dopo averlo lasciato nel sottofinale di Finalmente l'alba, per quelle distorsioni spazio-temporali tipiche al Lido, un quarto d'ora dopo lo ritroviamo nella sequenza di apertura del film di Yorgos Lanthimos Poor Things). La musica elettronica della colonna sonora. Il cameo en travesti di Michele Bravi che duetta con la stupenda Lily James. Il clima ipnotico, di sospensione, che si respira in tante sequenze. E la ricostruzione di Cinecittà, che in effetti è il personaggio più riuscito del film.
Cose non così notevoli di Finalmente l'alba. Alba Rohrwacher nei panni di Alida Valli (la sospensione dell'incredulità anche nel cinema ha dei limiti). La protagonista, Rebecca Antonaci, al suo esordio: in due ore e venti di film parla persino meno che in conferenza stampa, dove non ha detto niente. L'ennesimo animale selvaggio e immaginario che si aggira silenzioso per la grande bellezza di Roma.
Il rischio che qualcuno voglia vedere nel film, che prende spunto dell'uccisione di Wilma Montesi nell'Italia democristiana di ieri, una denuncia della deriva femminicida dell'Italia maschilista di oggi (e qualcuno ci ha già provato)
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