
H a scoperto in un lunedì di quattro anni fa, in apparenza ordinario e anonimo, che suo padre Dominique ha drogato la madre per quasi dieci anni, che l'ha offerta come preda sessuale a un'ottantina di sconosciuti, che dietro l'immagine di un marito, padre e nonno amorevole, si nascondeva un orco capace di aprire la porta di casa ad altri mostri, estranei trovati su siti di incontri online, per poi mentire, dissimulare e proseguire con una vita del tutto normale, almeno in superficie. «Un cataclisma», lo definisce lei, Caroline, figlia di Gisèle Pelicot, la donna di Mazan, paesino della Vaucluse, in Francia, divenuta un simbolo mondiale di violenza e riscatto, per aver deciso di trasformare la propria storia in una battaglia giudiziaria e simbolica per tutte le donne vittime di violenza. Suo padre è stato condannato a venti anni di carcere, gli altri 50 uomini finiti a processo con lui a pene che per la maggior parte vanno dai 3 ai 10 anni. È stato come attraversare «un labirinto in cui dietro ogni porta non si scoprivano solo nuovi orrori, ma interi corridoi che conducevano ad altre porte e altri orrori», racconta Caroline nel libro «E ho smesso di chiamarti papà», che esce oggi in Italia (Utet editore, pagg. 213, 19 euro) e dove ha abbandonato il suo cognome per lo pseudonimo Darian, l'unione dei primi nomi dei suoi due fratelli, David e Florian.
Vuole cancellare il nome di suo padre?
«Non volevo usarlo per questo libro, certo, in cui ho voluto raccontare la deflagrazione che ha attraversato la mia famiglia anche attraverso la nostra fratellanza. Io sono la figlia di mezzo, l'unica femmina. Ma io e i miei fratelli siamo accomunati dallo stesso dramma: essere al tempo stesso figli della vittima e figli del carnefice».
Che genere di choc è scoprire a 42 anni di un padre stupratore e di una madre vittima inconsapevole. Cosa ha provato in questi anni?
«C'è la violenza dei fatti, che riguarda anche me, la consapevolezza che il numero degli autori finiti alla sbarra, cioè 51, in realtà è molto inferiore al numero di coloro che quei fatti li hanno commessi davvero, perché molti non abbiamo potuti identificarli formalmente. C'è poi l'abbandono di un padre che credevo di conoscere. E aver scoperto di non conoscere la persona che ti ha allevato richiede una lenta e difficile ricostruzione».
Tra le foto e i file trovati nel computer di suo padre, scoperto dopo che aveva filmato tre donne sotto la gonna in un supermercato, ci sono anche due sue fotografie, di lei nuda e priva di sensi. È questa la violenza su di sé a cui si riferisce?
«Sì, ho la convinzione profonda di essere stata drogata, come minimo. E senza dubbio abusata, sì».
In quelle foto lei indossa biancheria intima che non riconosce ed è addormentata. Racconta di non essersi riconosciuta in quegli scatti, fino a che i poliziotti le hanno fatto notare che la donna in foto aveva le sue stesse macchie sulla pelle. Chiederà giustizia come sua madre?
«Devo imparare a convivere con questa cosa. Il tempo è passato e non saprò mai la verità, perché mio padre nega e non ci sono prove. Sarà sempre la sua parola contro la mia».
Al di là della violenza fisica, cosa non potrà mai perdonare a suo padre?
«L'essere stata completamente tradita. Non c'è cosa peggiore del tradimento di una persona che amiamo e rispettiamo. È il peggiore dei tradimenti».
Lei spiega che nessuno si era mai accorto di nulla in famiglia. Come è stato possibile?
«Mio padre ha nascosto perfettamente le sue due personalità, che convivevano da sempre in lui. Come figlia posso dire di non aver mai visto e mai assistito a nessun atto offensivo».
Sua madre, dopo il processo, ha detto di essersi «liberata». Per lei l'incubo è finito?
«Non credo che nemmeno mia madre si sia liberata davvero, perché in autunno ci sarà il processo d'appello di una decina di condannati. Mia mamma Gisèle si è liberata nel senso che ha divorziato. Ma né io né i miei fratelli possiamo divorziare da nostro padre e questo rende le cose molto diverse».
Lei ha provato la rabbia, la vergogna. Quale sentimento adesso che suo padre è stato condannato?
«Soddisfazione perché una forma di giustizia è stata fatta, ma non per me. Io non recupererò mai la mia vita di prima».
Come reputa la pena di 20 anni?
«Mio padre ha preso il massimo previsto. La vera questione è che non esca prima. Non voglio che succeda, è un pericolo per la società».
E gli altri condannati? Lei scrive che quasi nessuno aveva realizzato di essere un pericoloso criminale.
«In pochi hanno preso pene oltre i 10 anni. Ma nessuno ha denunciato, nemmeno chi è venuto nella nostra casa una sola volta. La maggior parte erano uomini che vivevano una vita di coppia apparentemente normale e che sono padri di famiglia».
Suo padre ha scritto più volte dal carcere e ha chiesto perdono. Lei non gli ha mai creduto?
«No, mai. È un uomo privo di empatia, che non ha rimpianti né rimorsi».
Non lo perdonerà mai?
«No, non credo al perdono».
Il messaggio più potente che lei e sua madre avete lanciato è che la vergogna deve cambiare campo, dalla vittima al carnefice. È fiera di questo risultato?
«Non è fierezza in senso stretto, ma una forma di soddisfazione sì».
Lei ora denuncia il fenomeno della «sottomissione chimica», quella subita da sua madre. Donne drogate, insomma. In quali ambienti è più diffuso?
«La maggior parte dei casi avviene nel privato, nella sfera intrafamiliare. Con la mia storia spero di allertare, prevenire, è il senso del mio libro. È importante che questa causa diventi pubblica e sia compresa».
Che reazione ha sentito dall'opinione pubblica?
«C'è stata un'ondata di choc e di empatia generale. La gente è strabiliata dalla nostra storia. Rispetta la nostra decisione di farsi avanti, prendere la parola, avvertire di non dividersi. Ammirano l'impegno».
Lei nel libro racconta di come ha dovuto dire a suo figlio che il nonno era in carcere. Un altro choc?
«Mio figlio e il nonno erano molto vicini fino al giorno della verità, quando il mio bambino aveva 6 anni. Ora è stato seguito da specialista e sa che suo nonno è ormai il passato».
Che vita conducete oggi lei e sua madre? Cosa pensa di Gisèle Pelicot come
donna?«Io continuo il mio impegno sulla prevenzione, che non si ferma dopo il processo. Mia madre, a 72 anni, per il momento resta più defilata. Ma rimane la donna più forte e straordinaria che abbia mai conosciuto».
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