Un braccio di ferro dove le ragioni della politica e del diritto si intrecciano in modo inestricabile: ma con la sensazione sempre più chiara che a decidere la sorte di Ilaria Salis siano più le ragioni di Stato che le valutazioni giuridiche. Ieri una frettolosa udienza davanti al tribunale di Budapest respinge nuovamente la richiesta di arresti domiciliari presentata dai difensori della 39enne italiana, rinchiusa in carcere da 13 mesi per l’aggressione ad alcuni militanti di estrema destra compiuti nella capitale ungherese l’11 febbraio 2023. Se ne riparlerà a maggio, intanto il processo va avanti. La durezza del trattamento riservato alla Salis ha il risultato inevitabile di dare fiato in Italia alle opposizioni che accusano il governo.
La Salis entra in aula a Budapest poco dopo le 9, e lo scenario è identico a quello che il 29 gennaio aveva sollevato in Italia incredulità e proteste: polsi legati con vistose catene, la scorta affidata a agenti speciali con volti mascherati da passamontagna.
Più che da ragioni effettive di sicurezza, in un tribunale blindato, la messinscena appare finalizzata a sostenere visivamente la tesi dell’accusa: la Salis non è un’idealista antifascista ma la militante pericolosa di una organizzazione violenta. Messaggio recepito dal giudice Jozsef Sos al termine di una udienza sbrigativa: le «severe accuse», dice, sono rimaste immutate e «13 mesi di carcere non sono esagerati». Per la rappresentante della Procura, «gli imputati hanno causato lesioni potenzialmente mortali e hanno agito in associazione per delinquere».
La Salis viene riportata in cella. «Un po’ me lo aspettavo - ammette suo padre - Ilaria qui è considerata un grande pericolo». «Resterà in carcere chissà ancora per quanto, può l’Italia accettare questo trattamento? Assolutamente no», protesta e poi annuncia: «Oggi (ieri, ndr) abbiamo avuto due violazioni importanti, Ilaria è riportata in tribunale con le catene e poi hanno rifiutato i domiciliari».
«Credo che a questo punto dovrò fare una chiamata al Quirinale, mi rivolgerò al presidente» dice.
La speranza degli arresti domiciliari, in un appartamento che la famiglia aveva individuato nella capitale, si infrange contro la linea dura della procura locale: «In questa fase del processo non si può ancora giudicare sulla gravità, bisogna prima ascoltare i testimoni e gli esperti, vedere le registrazioni delle telecamere». Nelle scorse settimane, pur dando atto ufficialmente che a decidere il destino della Salis è la magistratura ungherese e non il premier Viktor Orban, tentativi italiani di ammorbidire per via politica e diplomatica il trattamento della donna sono stati fatti ripetutamente. Che si andasse comunque verso lo scontro frontale lo si era intuito già il 15 marzo, quando da Budapest era arrivata una risposta secca alla Corte d’appello di Milano, chiamata a valutare la richiesta di estradizione in Ungheria di un presunto complice della Salis, l’antagonista milanese Gabriele Marchesi. I giudici italiani avevano offerto una soluzione mediata, chiedendo ai colleghi ungheresi di concedere a Marchesi gli arresti domiciliari a Budapest. Niente da fare, avevano comunicato i magiari: anche Marchesi deve andare in carcere, come la Salis. Commento del ministro degli Esteri Tajani: «Secondo me il giudice ha sbagliato ma non bisogna politicizzare la vicenda».
Conseguenza pressoché inevitabile: ieri, negli stessi momenti in cui la Salis appare incatenata in aula a Budapest, la Corte d’appello milanese rifiuta l’estradizione di Marchesi.
A pesare sui rapporti tra i due Stati d’altronde c’è anche la posizione di altri due militanti antagonisti milanesi, Romeo Anselmi e Rexhino Abazaj, anche loro accusati di avere fatto parte con la Salis e Marchesi del gruppo di estremisti di sinistra arrivati a Budapest tra il 10 e 11 febbraio dello scorso anno con l’obiettivo di aggredire i partecipanti al Giorno dell’Onore, la cerimonia in ricordo di ungheresi e tedeschi morti per opporsi all’avanzata dell’Armata Rossa nel 1945.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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