"Pizza? A Napoli era una schifezza". Ed è subito polemica

L’affermazione sulla pizza di Alberto Grandi, storico dell’alimentazione, scatena un vespaio di polemiche, non solo a Napoli. La replica dello storico e scrittore Angelo Forgione

"Pizza? A Napoli era una schifezza". Ed è subito polemica

Continuano a far discutere, e anche in modo decisamente acceso, le parole rilasciate al Financial Times da Alberto Grandi, studioso mantovano e storico dell'alimentazione e docente all'università di Parma, sul tema dei falsi miti, delle fake news legate alla cucina italiana e dell'identità connesso al mondo dei sapori.

Il professore non è un volto nuovo in questo settore. Grandi è conosciuto anche perché co-autore, insieme a Daniele Soffiati, del podcast "Doi, Denominazione di origine inventata" in cui demolisce una serie di miti della tradizione culinaria del nostro Paese. A molti quei pensieri espressi in un colloquio con il quotidiano economico-finanziario britannico non sono piaciuti. Dopo l’intervista, il professore è stato criticato dal ministro dei Trasporti Matteo Salvini e dalla Coldiretti che sono scesi in campo in difesa della cucina italiana.

Eppure Grandi non ha voluto arretrare dalle sue posizioni. Tanto che, in una nuova intervista concessa al Corriere della Sera, ha rimarcato il suo pensiero tirando in ballo persino la pizza.

"Confondiamo l'identità con le radici. L'identità è ciò che siamo oggi mentre le radici sono ciò che eravamo ieri e sono costituite da incroci, contaminazioni e scambi. È la nostra storia, fatta di persone che sono emigrate in America, Brasile, Belgio e in altri Paesi", ha rilanciato il professore. Che, poi, parla del fenomeno migratorio dei nostri connazionali rievocando la tragedia di Marcinelle del 1956: "È impensabile che gli italiani in quegli anni avessero qualcosa da insegnare ai belgi dal punto di vista gastronomico. All'epoca si mangiava meglio in Belgio che in Italia, è inutile girarci intorno. I nostri connazionali che avevano soldi mangiavano alla francese".

Secondo il ricercatore la nostra cucina, così come la conosciamo oggi, è frutto di "contaminazioni e del fatto che milioni di italiani sono andati in giro per il mondo e hanno imparato a cucinare scoprendo ingredienti nuovi". E per rafforzare il suo pensiero cita anche la pizza, uno dei piatti più amati a Napoli e non solo. Secondo Grandi finché è rimasta nella città partenopea, questa pietanza "è stata una grandissima schifezza. Ma quando è arrivata a New York si è riempita di prodotti nuovi e, in particolare, della salsa di pomodoro diventando la meraviglia che conosciamo oggi. Senza il viaggio degli italiani in America sono convinto che questa specialità sarebbe scomparsa".

Per il professore l'identità di un piatto non è bloccata ma è un processo dinamico che si evolve nel corso del tempo. Ma non è tutto. "Dire che la cucina italiana si fa così e basta - ha aggiunto - è un modo per ucciderla. Il fatto che l'Italia sia il primo paese consumatore di sushi in Europa significa che siamo noi i primi a non essere convinti della nostra presunta superiorità". Secondo il docente "alle giovani generazioni non importa nulla di ciò che mangiavano Lorenzo il Magnifico ed Isabella d'Este. Le mie figlie se devono scegliere tra un piatto di tortelli e il sushi scelgono quest'ultimo".

Il clamore suscitato dalle parole rilasciate al Financial Times per il professore hanno una spiegazione ben precisa: "L'Italia sta perdendo gran parte della sua identità e si sta aggrappando alla cucina come elemento identitario, una sorta di bandiera, qualcosa di cui essere orgogliosi, rispetto al quale è necessario essere ortodossi in modo grottesco". Per di più il docente sostiene che la candidatura della cucina italiana a Patrimonio immateriale dell'umanità Unesco è "una bandierina politica" che non avrà una ricaduta pratica ma che potrebbe creare le condizioni per una sorta di effetto "boomerang culturale per il nostro Paese".

Grandi è un fiume in piena. Nella sua invettiva non ha risparmiato critiche al ministro dell'Agricoltura e della Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida per la sua idea di voler organizzare una task force per controllare i ristoranti italiani che si trovano negli altri Paesi. "Una volta che avranno scoperto che, all'estero, mettono la panna nella carbonara, quale sarà la contromisura? Gli faranno una piazzata? Che senso ha?", si è chiesto il professore.

Il docente ne ha pure per Coldiretti, scesa in campo per difendere il Made in Italy. La più grande associazione di rappresentanza e assistenza dell'agricoltura italiana, dopo l’articolo pubblicato dal quotidiano britannico, aveva commentato: "Dal Financial Times arriva un attacco surreale ai piatti simbolo della cucina italiana, proprio in occasione dell'annuncio della sua candidatura a patrimonio immateriale dell'umanità all'Unesco". Secondo Coldiretti queste tesi vogliono "banalizzare la tradizione alimentare nazionale. Sulla base di fantasiose ricostruzioni si contestano le tradizioni culinarie nazionali più radicate. In sostanza la carbonara l'avrebbero inventata gli americani e il panettone ed il tiramisù sono prodotti commerciali recenti ma soprattutto si arriva addirittura ad ipotizzare che il parmigiano reggiano originale sia quello che viene prodotto in Wisconsin in Usa, la patria dei falsi formaggi made in Italy".

Grandi, però, non ci sta e nel suo colloquio con il Corriere replica spiegando che le sue affermazioni non rappresentano un danno all’agroalimentare nostrano: "C'è una cosa che mi fa diventare matto: quando dico che, negli ultimi cinquant'anni, il Parmigiano Reggiano è cambiato ed è diventato un prodotto straordinario, che male sto facendo? Qual è il danno per l'economia e l'agroalimentare italiano?". Il professore fa, infine, un parallelo con un’altra realtà: “Se nel Wisconsin si fa il formaggio come lo si faceva da noi cent'anni fa, questa è una colpa e non un merito per il Wisconsin: ciò non significa che sia migliore di come lo si fa oggi in Italia. Mi sono limitato a fare una constatazione filologica delle origini del Parmigiano”.

In difesa della pizza

Lo storico e scrittore Angelo Forgione, come riporta Napoli Today, entra nella polemica criticando Grandi. "Nel mio libro Il Re di Napoli, circa la storia del pomodoro, riporto tutte le documentazioni che attestano come la pizza con il pomodoro (e la mozzarella) nasca indubitabilmente a Napoli nella prima metà dell'Ottocento, quindi ben prima del trasferimento del pizzaiolo Gennaro Lombardi a New York nel 1905", ha affermato Forgione.

Quest’ultimo ha continuato spiegando che è sì vero che "la prima pizza dei napoletani, nel Seicento (così come le antiche preparazioni dei Greci e persino degli Egiziani) era bianca poiché il pomodoro non era ancora abituale in alimentazione e quello lungo ancora non era conosciuto in Europa.

Era ricca di strutto, formaggio di pecora, pepe e basilico […] Poi, con l’inizio della coltivazione del pomodoro a bacca lunga attorno al Vesuvio, a fine Settecento, il cibo di strada del popolo napoletano iniziò a colorarsi di rosso".

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