No al "fine pena mai", carcere che non educa

Il sovraffollamento delle carceri, in cui i detenuti si ritrovano a permanere uno sull’altro, non soltanto conduce alla follia ma ostacola proprio la rieducazione

No al "fine pena mai", carcere che non educa
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Caro direttore, sono un collega e ti leggo con ammirazione da molti anni. A proposito della pena dell'ergastolo, su cui ho ascoltato un tuo commento dopo la condanna di Filippo Turetta, la nostra bislacca Costituzione ha scelto di percorrere la strada della funzione rieducativa della pena, invece di quella retributiva. Ciò ha comportato, però, che tale scelta fosse incompatibile con la pena del carcere a vita; infatti, che senso ha rieducare una persona che non potrà mai più vedere la libertà? Questo è il motivo, credo, per cui di fatto l'ergastolo nel nostro Paese (salvo rarissimi casi) non esiste più, essendo mitigato da tutta una serie di benefici cui i condannati possono accedere dopo aver scontato diversi anni di detenzione. Mi piacerebbe conoscere la tua opinione su quella che dovrebbe essere, in astratto, la funzione della pena: mera conseguenza del reato che si è commesso oppure no? E ancora: è possibile credere in una reale ed effettiva rieducazione? Grazie per il tuo costante lavoro.

Andrea Sicco
Ivrea

Caro Andrea, proprio perché l’ergastolo contraddice la finalità rieducativa, fissata dalla nostra Costituzione, della pena detentiva, io sono assolutamente contrario al cosiddetto «fine pena mai». Rieducare, del resto, è a sua volta funzionale ad un reinserimento sociale, ossia al ritorno in società della persona che, non senza causa, ha subito la privazione della libertà personale. Reinserimento che non si attua nel caso in cui la condanna preveda appunto che dalla casa circondariale mai si venga fuori, se non da morti. Quindi, a mio avviso, l’ergastolo andrebbe eliminato e la sua attenuazione non dovrebbe dipendere dall’applicazione di quelle misure cui tu ti riferisci, alle quali il condannato può accedere scontato un tot di anni.

Per quanto riguarda il caso specifico di Filippo Turetta, conveniamo tutti che questo ragazzo, spietato assassino, meritasse una sentenza severissima, la più pesante possibile. Non condivido le polemiche delle femministe in merito al mancato riconoscimento delle aggravanti della crudeltà e dello stalking e ti spiego perché. Non perché questo tizio qui non si sia reso reo anche di una sorta di persecuzione ai danni di Giulia, prima che ne pianificasse l’uccisione mettendo a segno il suo piano criminale, bensì perché, pure se questo fosse stato riconosciuto dai giudici, la pena non avrebbe potuto essere più afflittiva dell’ergastolo a cui Turetta è stato di fatto condannato. Ritengo altresì che Filippo abbia agito con crudeltà assoluta, ma, ripeto, specificarlo o meno non avrebbe inciso sulla portata della condanna. Dunque perché stracciarsi le vesti, urlare, insorgere, parlare ancora di sessismo, patriarcato e bla bla bla? Questo giovane, freddo e lucido, ha ammazzato la ex fidanzata perché questa lo aveva scaricato. È uscito di casa armato e ha realizzato il suo progetto di sangue, su cui Turetta aveva lavorato per settimane, definendolo nel dettaglio.

Tu mi chiedi come possiamo attuare e concretizzare lo scopo rieducativo della pena. Bella domanda. Innanzitutto, occorre puntualizzare che il sovraffollamento delle carceri impedisce la realizzazione di un trattamento di recupero individuale del ristretto. Un sistema di questo tipo, in cui i detenuti si ritrovano a permanere uno sull’altro, non soltanto conduce alla follia ma ostacola proprio la rieducazione. Il carcerato sviluppa rabbia, insofferenza, disperazione, e ciò talvolta finisce per consolidare la scelta criminale.

Insomma, le carceri stracolme assomigliano a fabbriche di delinquenti quando dovrebbero essere luoghi di riabilitazione e rinascita.
La rieducazione deve avvenire soprattutto mediante il lavoro. Il carcere di Bollate dovrebbe essere il modello da ricalcare e da estendere su tutto il territorio italiano. Una realtà che conferma che certe strutture possono funzionare se bene organizzate e assolvere la destinazione e lo scopo per cui sono state previste.

Purtroppo una certa cultura giustizialista ci induce a trascurare le problematiche del carcere e di chi lo abita, oltre che di chi ci lavora.

Bisogna approcciarsi a queste tematiche con un senso di umanità e con l’equilibrio che deriva dalla interiorizzazione dei valori che sono posti a fondamento della nostra Repubblica.

Utile sarebbe tenere a mente che a chiunque di noi può capitare di finire dietro le sbarre, fosse anche per errore.

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