Ha mille facce il bullismo. Ed è subdolo, molto più del passato, anche per colpa della tecnologia e dei social network, che creano una "vita parallela" e moltiplicano i problemi. Le cronache dei giornali ci parlano di diversi episodi di violenza tra ragazzi, alcuni molto gravi che sfociano in vere e proprie tragedie. Ne abbiamo parlato con l'avvocato Marisa Marraffino, autrice del libro "Il bullismo spiegato a genitori e insegnanti" (Laurana Editore).
Avvocato, perché ha scritto questo libro?
Perché sono convinta che quando un ragazzo sbaglia la responsabilità sia degli adulti. Mi rivolgo a loro nel mio libro perché è urgente che cambi qualcosa, non si può più far finta che il bullismo sia soltanto un problema dei ragazzi. È molto più complesso di così. Gli adulti devono sapere come intervenire, anche dal punto di vista legale. I giudici nelle sentenze parlano di culpa in educando, si tratta di maleducazione, bisogna fare i conti con queste pronunce. È la prima volta nella storia del diritto che i magistrati si sostituiscono ai genitori, ad esempio ordinando loro di rimuovere le foto dei figli sui social network. È da qui che bisogna partire, dagli adulti.
Nella quarta di copertina c'è scritto che è un libro dedicato a tutti: insegnanti, genitori, ragazzi. In che modo è riuscita a parlare a tutti e tre i destinatari?
Spiegando cosa succede in tribunale, come certi processi si potrebbero evitare, come il bullismo rischia di cambiare la vita di chi ci è passato attraverso sia come vittima sia come autore. Un ragazzo a partire dai 14 anni per la nostra legge può essere imputabile, affronta in proprio le conseguenze di un processo penale, i genitori ne rispondono invece in sede civile finché il figlio non sarà maggiorenne. Si tratta di un aspetto che spesso gli adulti sottovalutano. La legge vale per tutti, così come tutti devono sapere come intervenire subito se si trovano davanti ai segnali di esordio del bullismo, che non devono essere trascurati, oggi più che mai. Bisogna conoscere il mondo in cui vivono i ragazzi, per spiegare loro i nuovi pericoli. Molte cose sono cambiate con la tecnologia, che ha la sua grammatica e che spesso entra violentemente in conflitto con la fragilità che è tipica dell’età adolescenziale. Per capirlo gli adulti devono riconquistare l’autorevolezza perduta negli ultimi anni agli occhi dei loro figli.
Quando ha iniziato a occuparsi di bullismo?
Da sempre, ho iniziato ad approfondire la struttura dei reati informatici durante il mio dottorato di ricerca all’Università di Firenze, poi sono arrivati i primi casi in studio. Il bullismo è sempre esistito, solo che adesso è diventato più pericoloso con i social network. I reati commessi dai minori sono più frequenti e insidiosi. Gli effetti negativi si moltiplicano nel web e purtroppo sta diventando "normale" pubblicare video sui social network senza il consenso degli interessati, offendere pubblicamente i compagni di classe, gli insegnanti, fino a perdere la consapevolezza anche della propria riservatezza. Si fanno circolare liberamente in chat video erotici, foto imbarazzanti, senza preoccuparsi delle conseguenze che possono essere devastanti.
Qual è, a suo modo di vedere, il "bullo tipo"?
Non esiste un bullo tipo, ma ci sono sempre più minori che richiedono la nostra attenzione o il consenso dei compagni. Mediamente sono più fragili dei ragazzi del passato, per questo è fondamentale che gli adulti riacquistino ai loro occhi l’autorevolezza perduta. È una questione di educazione che deve essere urgentemente rivista. Non si deve essere amici dei figli, ma bisogna tornare ad essere il loro punto di riferimento nei momenti di difficoltà, qualcuno su cui possono contare, che conosce il loro mondo e che sa intervenire nel modo giusto, anche chiedendo aiuto ad esperti, se necessario. Per i ragazzi non è facile chiedere aiuto così come non lo è per gli adulti, ma questo è il primo gesto da cui partire per risolvere davvero il problema.
L'errore più grande che possono fare i genitori su questo problema?
Essere genitori oggi è più complesso che in passato perché la tecnologia ha cambiato velocemente le forme di comunicazione. I ragazzi hanno nuovi strumenti per dialogare, anche tra di loro, che i genitori spesso non conoscono. I figli hanno smesso di parlare con i genitori e questi ultimi non hanno trovato un modo per farsi ascoltare, spesso rinunciando a capire i motivi dei comportamenti dei figli. L’errore più grande è lasciare i ragazzi da soli. I genitori devono tornare a fare quello che sanno fare meglio: educare. Ed è urgente, non si può più aspettare. Educare significa anche fermarsi, accettare che il proprio figlio possa sbagliare e che noi stessi possiamo commettere degli errori. Far finta di niente o dare la colpa agli altri aggrava il problema e anche le conseguenze di un reato.
E le scuole?
Gli insegnanti hanno un ruolo centrale nella lotta al bullismo. Stanno con i ragazzi per molto tempo, li conoscono a volte meglio dei genitori e possono essere in grado di cogliere i segnali di esordio. Dall’isolamento della vittima, agli insulti fino alle percosse. Devono essere in grado di interrompere tempestivamente l’escalation criminosa associata al bullismo, prima che degeneri e assuma i contorni degli atti persecutori fino addirittura all’istigazione al suicidio. È importante allora che gli insegnanti facciano con passione il loro lavoro, nonostante le difficoltà che comprendo.
Come valuta la recente legge sul cyber bullismo?
È un primo passo importante, ha introdotto degli strumenti di intervento utili, come l’ammonimento del Questore che in molti casi ha già evitato che un video offensivo o erotico che riguardava dei minorenni potesse diventare virale, oppure il reclamo al Garante per la protezione della privacy, che può essere inviato direttamente dai ragazzi ed è completamente gratuito. Dopo la sua entrata in vigore, oltre un anno fa, nelle scuole c’è stato un grande movimento, con progetti educativi e informativi che possono fare la differenza.
C'è un caso, fra quelli che ha trattato per lavoro, o che ha letto sui giornali, che l'ha colpita più degli altri?
Sì, c’è stato il caso di un video offensivo ai danni di una ragazza straniera che circolava su WhatsApp. I compagni la prendevano in giro per il suo accento, il suo aspetto fisico e anche con battute a sfondo sessuale. La ragazza ne ha parlato con la sua insegnante di lettere che era riuscita ad instaurare con lei un rapporto di fiducia. L’insegnante mi ha contattata subito e siamo riuscite ad evitare che il video venisse pubblicato sui social, ma anche ad attivare un percorso con tutta la classe. Adesso gli autori di quel video stanno facendo un percorso di "peer education" nella scuola, spiegando agli altri ragazzi perché è sbagliato diffondere fotografie o video contro qualcuno che non può difendersi. Quando non riusciamo ad evitare che gli episodi finiscano in tribunale, mi colpiscono sempre positivamente i genitori che collaborano, che ammettono che il proprio figlio ha sbagliato e che in questo modo ci aiutano a costruire un percorso serio di messa alla prova che può essere un’occasione di crescita condivisa. Purtroppo non sempre succede.
Lei ha fatto diversi incontri nelle scuole e con le associazioni, per parlare di questo tema. Che clima si respira?
Mi colpisce sempre la voglia dei ragazzi di capire, mi spiace che spesso sia la prima volta che sentono parlare dei reati che si possono commettere on line. Dovrebbero sentirne parlare a scuola, in famiglia, dovrebbero diventare argomenti di confronto, come l’educazione sessuale o stradale. C’è ancora molto da fare, ma credo che il percorso sia finalmente iniziato. Purtroppo però il problema del bullismo non si risolverà a breve, è una questione prima di tutto culturale, c’è molto da lavorare.
Durante la presentazione del suo libro, a MIlano, lei ha parlato di una bambina bullizzata e salvata dal fratello. Era lei?
Sì. Ricordo che quando ero piccola, alle elementari, ero stata presa di mira da un gruppo di ragazzi più grandi di me. Mi facevano i dispetti, tipici di quell’età, sgambetti, spintoni, offese varie. Una volta però arrivarono a puntarmi contro un piccolo coltello di quelli da campeggio perché volevano dei soldi, allora ricordo bene di aver avuto paura. Ho la fortuna di avere un fratello maggiore che in quell’occasione mi ha aiutato molto, una specie di "peer education" di quei tempi. Poi qualche giorno dopo tornai a casa con le ginocchia sbucciate e allora intervenne mia mamma e tutto finì. A quei tempi i segni del bullismo erano visibili, si portavano addosso e gli adulti di riferimento potevano intervenire con più facilità.
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