
Lo spazio tra il sacro e il profano è spesso una scommessa. Sulle monete e sulle banconote statunitensi c'è il motto nazionale «In God We Trust», come se davvero fosse possibile comprarsi la fede con i soldi. Non importa. Pure i presidenti giurano sulla Bibbia e sospirano «che Dio mi aiuti». Trump sottovoce avrà detto che lui magari non ne ha bisogno. Il primo emendamento per fortuna stabilisce che non esiste una religione di Stato e ognuno può credere, in privato e pubblicamente, per chi vuole, pure nell'invisibile unicorno rosa o nel movimento per l'estinzione umana volontaria. L'unica cosa certa è che se ci sai fare la religione è un business. È un affare anche in politica. Il consenso nel nome di Dio, qualsiasi dio, non è mai da buttare via.
Lo scandalo del giorno è la croce sulla fronte di Marco Antonio Rubio. Il segretario di Stato è apparso sulla Fox e ha provocato l'appassionante, si fa per dire, discussione se quel segno sia scandaloso oppure no. «In hoc signo vinces». Rubio lo ha fatto per rivendicare il diritto dei cristiani, perfino dei cattolici, di mostrare i simboli della propria fede. Lo fanno anche gli altri, perché noi no? Nessuno si scandalizza, sostiene Rubio, per l'identità islamica. Ci può stare, anche se per fortuna l'America non è l'Iran. Forse però Rubio, senza neppure saperlo, voleva lanciare un altro messaggio. Quel segno fresco di cerimonia ricorda il mercoledì delle ceneri. È l'inizio della Quaresima. Non sono solo i quaranta giorni di penitenza che precedono la Pasqua. Non segnala semplicemente che polvere sei e polvere ritornerai.
È soprattutto il senso del viaggio di Gesù nel deserto. È quando fai i conti con te stesso, con le tue paure, con i tuoi demoni. Rubio non lo sa, ma in questo caos siamo tutti nel deserto. È il caso che questa America ci faccia un pensiero. Amen.
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