Il dovere civile di riportare a casa Ilaria

Budapest è una linea spezzata, dove ancora i sogni muoiono all'alba

Il dovere civile di riportare a casa Ilaria
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Budapest è una linea spezzata, dove ancora i sogni muoiono all'alba. Tra qualche giorno segnerà da qualche parte che è passato quasi un anno. Non ha mai smesso di contare, perché se non hai perso il senso del tempo vuol dire che c'è ancora speranza. Ilaria Salis (nella foto) conta e riconta, dentro le mura di un carcere di sicurezza ungherese, dove la dignità umana è rimasta fuori, in attesa di un processo che rischia di mettersi male. Ilaria ha quasi quarant'anni e viene da Monza. È maestra d'asilo. È anarchica e anti fascista. Ci crede e si batte per le sue idee. Non leggerebbe mai le pagine di questo giornale, ma questo non importa. La storia di Ilaria racconta un abuso di potere.

È l'11 febbraio del 2023. A Budapest si va in piazza per il «giorno dell'onore». È il ricordo della controffensiva disperata di una guarnigione nazista contro l'Armata Rossa nel 1945. L'ordine di Hitler è resistere fino all'ultimo uomo per bloccare la strada verso Berlino. Il generale Karl Pfeffer-Wildenbruch non rispetta gli ordini e prova a rompere l'assedio che dura da tre mesi. Sarà una carneficina. Di 28mila soldati, tedeschi e ungheresi, ne resteranno vivi poco più di cinquecento. Questa mattanza diventa l'orgoglio dei gruppi neo nazisti di mezza Europa. Qui viene a riconoscersi chi si è seduto dalla parte sbagliata della storia, nostalgici e sconfitti. Il governo Orbán lascia che sia così. Ilaria Salis parte da Milano con il suo gruppo di «resistenti» e si ritrova con l'internazionale antinazista. È uno scontro tra pezzi di Novecento. Finisce a mazzate. È rissa e guerriglia. Non si risparmiano i colpi. In un angolo restano a terra tre neonazi. La polizia interviene. C'è chi scappa e chi viene catturato. Ilaria è in manette. L'accusa è aggressione, con lesioni potenzialmente mortali. I tre feriti restano in ospedale per un paio di giorni e scelgono di non fare alcuna denuncia. Non si riconoscono in questo Stato e preferiscono risolvere certe questioni a modo loro: ci vedremo qui il prossimo anno. È la logica degli ultrà. Tutto questo non interessa la giustizia ungherese. La procura ci mette il carico e mette sul piatto anche il reato di associazione criminale. Si tira in ballo il gruppo tedesco Hammerbande, associazione che va a caccia di militanti nazifascisti, uno a uno. Il padre di Ilaria ricorda che non c'è uno straccio di collegamento tra la figlia e la «banda del martello». «Ho letto le 800 pagine dell'inchiesta di Lipsia su Hammerbande e il nome di Ilaria non esce mai».

Ilaria a questo punto rischia una pena vicina ai 24 anni. Il carcere di sicurezza è ai limiti dell'umano. I topi e le cimici sono scontati. Non ci sarebbe alcuna assistenza medica. Non c'è carta igienica, sapone e assorbenti. Ilaria per parecchie settimane non può cambiare i vestiti. Nessun contatto con la famiglia per sei mesi. Quando va in tribunale entra con mani e piedi ammanettati e un guinzaglio di cuoio ai polsi. È un carcere duro, per terroristi. La presunzione di innocenza non conta.

Il dovere dell'Italia è riportare a casa Ilaria. Antonio Tajani, ministro degli Esteri, si è mosso per trovare una soluzione il più in fretta possibile. Non è solo per tutelare una cittadina italiana.

È per riaffermare un principio, per continuare a credere che l'Occidente non rinnega i diritti umani, quelli inalienabili, quelli che vengono prima di qualsiasi legge e qualsiasi Stato, quelli che sono i pilastri di una civiltà. È un'idea universale e vale, a destra e a sinistra, perfino per i nemici della società aperta. Noi, liberali e libertari, non siamo come loro.

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