"Il femminismo è un errore". La lezione inascoltata della prima donna futurista

"Il femminismo è un errore cerebrale della donna". Chi è Valentine de Saint-Point, poetessa e autrice del Manifesto della Donna futurista, che il Vate ribattezzò "Fille du Soleil"

"Il femminismo è un errore". La lezione inascoltata della prima donna futurista

Chissà cosa direbbe delle quote rosa, dello scwha, del sesso liquido e di tutte le futilità in cui si è perso il pensiero femminista contemporaneo. Lei che andava fiera ed orgogliosa della propria femminilità feroce, tanto da sbatterla in faccia a Filippo Tommaso Marinetti – padre della rivoluzione futurista e teorico del “disprezzo della donna” – con un contromanifesto che a distanza di più di un secolo non ha perso un briciolo del suo vigore.

Lei è Valentine de Saint Point e sosteneva che il femminismo fosse “un errore cerebrale della donna, un errore che il suo istinto riconoscerà”. Nata a Lione nel 1875 come Anna Jeanne Valentine Marianne Desglans de Cassiat-Vercell e morta a Il Cairo nel 1953 come Raouhya Nour el Dine. Settantotto anni di vita vissuta senza parsimonia, con il gusto dell’avventura, la fame di sperimentarsi, il desiderio di superarsi. Senza pudori né imbarazzo. Sempre con un tocco di rosso scarlatto addosso. È stata futurista quel tanto che bastò per dare scandalo, musa di pittori e scultori, danzatrice, crocerossina ed infine esule e convertita all’Islam. Era un’anima inquieta e intrepida Valentine, espressione perfetta delle avanguardie culturali del secolo breve.

Figlia della buona società di Lione, nel suo albero genealogico c’è una lontana parentela con il poeta romantico Alphonse de Lamartine. La fascinazione per l’illustre prozio è tanta che Valentine, già scrittrice in erba, mutuerà il proprio nome d’arte dalla residenza di quest’ultimo: il castello di Saint-Point in Borgogna. Si sposa a diciotto anni con un professore di letteratura del liceo ma sei anni dopo è già costretta vestire a lutto. L’insofferenza per la realtà ristretta da cui proviene e il fermento culturale dei primi del Novecento la portano a Parigi.

La città la rapisce. Segna l’avvio della sua carriera letteraria e di tumulti personali che saranno il nutrimento della sua arte. Pur di coronare sotto forma di “unione libera” la passione con il poeta e romanziere Ricciotto Canudo, colui che per primo ebbe l’intuizione di indicare il cinema come “settima arte”, accetterà il peso di un divorzio con colpa dal secondo marito. Nel frattempo irrompe sulla scena artistica con raccolte poetiche (Poèmes de la Mer et du Soleil, Poèmes d’orgueil, La Soif et les Mirages) e romanzi (Trilogie de l’amour et de la mort). La critica la accoglie con curiosità. Guillaume Apollinaire dirà di lei che “ha innalzato mirabili canti lirici, talvolta aspri come profezie”.

Era bella Valentine. Molto più bella di quanto raccontino le foto in bianco e nero. Bella come un quadro di Alphonse Mucha o una scultura di Auguste Rodin. Fu per entrambi modella, musa e amante. Anche Gabriele D’Annunzio rimase abbagliato dal suo fascino, tanto da battezzarla “Fille du Soleil”. Ma il sodalizio intellettuale e umano a cui deve la sua fama fu sicuramente quello con Filippo Tommaso Marinetti. Quando si incontrano l’effetto è quello del fiammifero sulla superficie ruvida. È subito fuoco ma si consuma in fretta. È di quella stagione il Manifesto della Donna futurista, a cui seguirà quello della Lussuria. Sola e unica letterata – in un’epoca in cui c’è un vero e proprio florilegio del genere – ad averne scritti due.

Nati per reazione, quasi epidermica, al dirompente Manifesto futurista di Marinetti e in particolare al nono punto: “Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”. Valentine è fermamente convinta che nessuna rivoluzione, neppure quella dei futuristi, può prescindere dalle donne e rivendica per sé e per le sue sorelle un posto nella storia. Donne che sono le Erinni, le Amazzoni, le Giovanna d’Arco, le Cleopatra e le Messalina. Eroine come Caterina Sforza che durante l’assedio di Forlì non capitolò neppure quando, dall’alto della rocca, vide il nemico minacciare la vita di suo figlio.

“Già da secoli si cozza contro l’istinto della donna, null’altro si pregia di lei che la grazia e la tenerezza. (…) Ma gridatele una parola nuova, lanciate un grido di guerra, e con gioia, cavalcando di nuovo il suo istinto, essa vi precederà verso conquiste insperate. Quando le vostre armi dovranno servire, la donna le forbirà”. E ancora: “Invece di ridurre l’uomo alla servitù degli esecrabili bisogni sentimentali, spingete i vostri figliuoli e i vostri uomini a superarsi. Siete voi che li fate. Voi avete su loro ogni potere”.

È il concetto del superuomo nietzschiano che Valentine traspone al di là dei generi. D’altronde per lei era assurdo dividere l’umanità in donne e uomini in una illogica contrapposizione tra i sessi: “Essa è composta soltanto di femminilità e di mascolinità. (…) Ogni superuomo, ogni eroe, per quanto sia epico, (…) è composto, ad un tempo, di elementi femminili e di elementi maschili”. Trasportata dall’epos del futurismo, si arruola come volontaria nella Croce Rossa durante la Prima guerra mondiale. È un bagno di sangue e di realtà. Non c’è lirica né fierezza nel ricomporre i corpi straziati e nel conforto ai sopravvissuti. Valentine si perde.

Gli anni successivi li passa alla ricerca di una nuova identità. La ritroverà in Egitto con il nome di Raouhya Nour el Dine che significa “luce della religione”.

Sotto il segno della mezzaluna, Valentine abbraccia la causa dei nazionalisti egiziani in lotta contro le ingerenze del Regno Unito e s’interroga su questioni ancora attuali: il rapporto tra Oriente e Occidente, tra spiritualità e scientismo, religione e diritto positivo. Riflessioni che la porteranno sui sentieri del misticismo e dell’esoterismo, sotto la sapiente guida dell’amico René Guénon. È morta povera e riposa sotto una lapide spoglia nella Città dei Morti a Il Cairo.

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