Figlie del patriarcato

Ci teniamo a non essere fraintesi perché il tema è delicato

Figlie del patriarcato
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Ci teniamo a non essere fraintesi perché il tema è delicato. Noi siamo felicissimi, anzi, di più, per il fatto che Marina Marzia Brambilla, nome sontuoso come la sua carriera, sia stata eletta rettore dell'Università degli Studi di Milano (o rettrice? o rettora? o rettoressa? Ormai come parli, sbagli): è la prima donna alla guida dell'ateneo in cento anni di storia.

Se la scelta è per meriti, come speriamo, siamo entusiasti. Se la scelta è per conformismo, come temiamo, va bene lo stesso.

Quello che sorprende, invece, è il coro che esalta la nomina come segno della morte del patriarcato e del predominio culturale del maschio. Dove curiosamente le voci più eccitate sono quelle che, del patriarcato, hanno più beneficiato in proprio. Come chi, ieri, in dichiarazioni e interviste gioiva commossa perché «stiamo superando il patriarcato, anche se c'è ancora molto da fare». Senza, per carità, alcuna allusione a Giulia Veronesi, luminare dell'ospedale San Raffaele, figlia del più grande barone in senso buono della storia dell'Università italiana. Solo come promemoria.

Solo per dire quante scrittrici nipoti di editori, o attrici amanti di registi, o registe figlie di un Elkann, o giornaliste mogli di direttori, sentiamo ogni giorno biasimare con fermezza il potere

maschile nel mondo del lavoro, gravido di vergognosi favoritismi.

E poi ci lamentiamo se Ilaria Salis, feroce oppositrice di cotanto patriarcato, si porta a casa una candidatura alle elezioni europee «d'accordo col padre»?

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