Quale sarà il futuro della striscia di Gaza se l'accordo sullo scambio fra ostaggi israeliani e detenuti palestinesi andrà in porto senza intoppi? I 42 giorni di tregua sono solo la prima fase, ma la seconda e la terza, previste e ancora da chiudere, puntano alla stabilizzazione, pacificazione e pure ricostruzione della fetta di terra ridotta in macerie da dove è partito l'attacco stragista del 7 ottobre.
Il primo punto di domanda riguarda l'organizzazione politica e militare di Hamas, decimata da 15 mesi di guerra, ma non debellata. Morto il capo, Yahya Sinwar, ne hanno trovato un altro, il fratello minore Mohammed, forse ancora più pericoloso, che ha l'ultima parola sulla tregua con Israele. Le brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas, canteranno vittoria e cercheranno di approfittare dello stop ai combattimenti per riorganizzarsi e arruolare nuovi adepti pescandoli pure fra i prigionieri palestinesi che verranno liberati dagli israeliani. Il governo di Netanyahu sembra che non voglia rilasciare i pesci grossi, come Marwan Barghouti, diventato una leggenda, che non ha mai fatto parte di Hamas. In carcere si sarebbe radicalizzato, ma potrebbe essere una carta da giocare per la stessa Autorità nazionale palestinese, che vuole prendere il comando a Gaza dopo essere stata fatta a pezzi nel 2007 da un golpe di Hamas nella striscia. Israele non vuole saperne neanche degli uomini di Abu Mazen. Nel nuovo governo locale sarebbe prevista la presenza dei clan della Striscia, che forse sono i più adatti a gestire un'amministrazione provvisoria che gestisca l'emergenza rimettendo in piedi i servizi critici dall'acqua, all'energia, agli ospedali e il flusso di aiuti con generi di prima necessità.
Il rischio è che i responsabili del 7 ottobre continuino a governare o influenzare da dietro le quinte e a rimettersi in piedi militarmente preparandosi alla prossima guerra. Per questo le fasi successive dell'accordo, ancora da finalizzare, prevedono una missione internazionale con un contributo di poliziotti o truppe che mantenga l'ordine e sotto controllo il risorgere di Hamas. Il contingente sarà messo in piedi dai Paesi arabi, ma non è esclusa una partecipazione europea a cominciare dall'Italia, che fin dall'inizio ha dato disponibilità a partecipare a una missione di pacificazione a Gaza. L'importante è che non sia una brutta copia dei caschi blu nel Sud del Libano, che non sono stati in grado di garantire il rispetto delle risoluzioni dell'Onu. E quando israeliani ed Hezbollah decidono di farsi la guerra si chiudono nei bunker rimanendo inerti fra due fuochi. La terza fase degli accordi, ancora da firmare, prevede la ricostruzione di un territorio lungo 40 chilometri e largo 10 trasformato in un cumulo di macerie. Se mai si arrivasse a questo punto esiste il rischio, come è successo in passato dopo l'operazione Piombo fuso, che Hamas, magari sotto mentite spoglie, gestisca a suo uso e consumo il business. L'impresa di sradicare la formazione terroristica e politica da Gaza è una missione quasi impossibile e lo dimostra la situazione della Cisgiordania, sull'orlo della guerra civile, dove le fazioni che inneggiano ad Hamas continuano a fare proseliti dal 7 ottobre e oramai combattono non solo contro gli israeliani, ma attaccano pure le forze di sicurezza dell'Autorità nazionale palestinese. Un motivo in più per giocare il tutto per tutto e cercare una soluzione definitiva sulla base dei due Stati. L'enorme tributo di sangue, versato soprattutto dai palestinesi, da ostacolo potrebbe essere ribaltato in spinta per evitare altre tragedie.
L'era Trump e il nuovo ordine
mediorientale, che si sta delineando dal conflitto, dovrebbero puntare all'obiettivo più alto di una pace definitiva. Forse è un'illusione e il futuro di Gaza sarà solo l'ennesimo stop temporaneo alle armi fino alla prossima guerra.
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