Con i falchi faremo poca strada

Il piano delineato da Mario Draghi presenta punti di continuità, ma c'è bisogno degli eurobond, a fronte degli ostacoli alla mutualizzazione del debito

Con i falchi faremo poca strada
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C'è una evidente continuità tra le proposte contenute nell'allarmato intervento che Mario Draghi inviò al Financial Times nella primavera 2020, in piena pandemia, con la filosofia che ispira il Rapporto sulla competitività presentato ieri a Bruxelles. Allora si trattò di suggerire agli Stati europei gli strumenti per ridurre i guasti prodotti dal blocco pressoché totale delle attività; oggi ci viene indicata la via per impedire che l'Unione finisca in frantumi, schiacciata dalla superiorità tecnologica dei due blocchi economici, Stati Uniti e Cina, la cui supremazia appare talmente evidente che l'ex presidente della Bce ed ex premier non esita a parlare di «sfida esistenziale» per l'Europa. Nel rapporto non ci sono novità assolute, né sul piano dell'analisi né su quello delle raccomandazioni; è il messaggio politico che merita una seria riflessione. Secondo Draghi l'Unione è al punto limite, se non si dà subito una mossa più che energica, il suo destino sarà segnato da una lenta ma inesorabile agonia. In breve, come al tempo della pandemia, siamo in piena emergenza, sia pure per motivi diversi. Lungo è l'elenco delle responsabilità che l'ex banchiere centrale imputa a quanti da Bruxelles ci hanno governato fino a oggi, contribuendo ad avvicinarci al ciglio del burrone. Tuttavia non spegne le speranze, a condizione che subito si metta mano al portafogli investendo massicciamente in innovazione, nuove tecnologie, difesa comune, politiche per accrescere la produttività. E indica nel Piano Marshall, che nel dopoguerra consentì all'Europa di risollevarsi dal baratro nel quale era precipitata, il modello di finanziamento del rilancio, addirittura indicando in 800 miliardi la cifra annuale da mettere sul tavolo.

Ma dove reperire tanti denari? Qui sta l'incognita-debolezza del Rapporto Draghi. Neanche tanto sullo sfondo, già s'intuisce come sarà difficile bissare la spinta solidale e collettiva che tre anni fa portò a una seppur parziale messa in comune del debito con il varo del Next Generation Ue. L'ala rigorista europea continua infatti a non volerne sapere di mutualizzare il debito, nonostante la profonda crisi che ha colpito l'economia tedesca. La presidente von der Leyen ha parlato di «contributi nazionali e risorse proprie», ma chiunque abbia una conoscenza anche superficiale della contabilità di Bruxelles sa che gli 800 miliardi indicati da Draghi non si possono mettere insieme attingendo dal bilancio comunitario e, men che meno, utilizzando le risorse dei singoli Stati membri ora che le nuove regole del Patto di Stabilità costringono i Paesi più indebitati all'interno di un sentiero assai stretto in termini di gestione delle finanze pubbliche. L'unica soluzione è affidarsi agli eurobond: provvisti della tripla A, il massimo grado di affidabilità creditizia, sarebbero in grado di raccogliere i favori di un mercato che non aspetta altro, come ha ricordato qualche giorno fa il componente del board Bce, Piero Cipollone.

È dunque necessaria una chiara scelta di campo, in grado di spezzare l'antitesi fra l'urgenza di rimodulare le scelte dell'Unione con il dispiegamento di fondi adeguati e le politiche economiche tuttora incardinate su un'austerity che in tutti questi anni ha finito per soffocare lo sviluppo dell'intera Unione.

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