Quante facce un po' così, con espressioni un po' così, in partenza, o di ritorno, da Genova, sono passate sul vecchio ponte dell'autostrada?
Prima della mattina del quattordici agosto 2018, nessuno si era mai sognato di chiamarlo per nome, il Morandi. Capita spesso che i grandi crolli dal muro di Berlino alle Torri Gemelle - ribattezzino ciò che prima svettava in verticale, un po' scontato, per elevarlo a simbolo di qualcosa che ci riguarda molto più intimamente di quanto pensavamo. E ci rivela qualcosa su di noi e su come guardiamo il mondo intorno. Il nuovo ponte si chiamerà San Giorgio. Di «mai più» in «mai più» di «non dimenticheremo» in «non dimenticheremo» sulla nave tra le valli di Renzo Piano si posano le fondamenta del cosiddetto «modello Genova». San Giorgio. Come il nome della prima banca del mondo, di cui resta il palazzo con l'affresco del santo che uccide il drago ben visibile dalla sopraelevata, direzione Porto Antico. Come la bandiera con la croce rossa su sfondo bianco che gli inglesi affittarono per difendersi dai pirati sfoggiando il vessillo che ai tempi terrorizzava i pirati che terrorizzavano il Mediterraneo.
C'è molto orgoglio in tutto questo. Ma nei bar e per le strade intorno al ponte, nei quartieri pieni di fabbriche, uffici e cantieri di Sampierdarena, Cornigliano, Sestri Ponente, Rivarolo, Certosa, dove passo le ore prima della cerimonia, tutta questa superbia, non si vede. Molto più che la sbandierata commozione, è la sagacia operaia a farla da padrona. Mentre tuoni e fulmini si sfogano sul mare e gli ombrelli si aprono a pioggia, il cielo schiarisce e compare un enorme arcobaleno che riunisce metaforicamente lo strappo tra le riviere di levante e ponente regalando agli interventi istituzionali e ai commentatori in tempo reale un luminoso esempio di unità, armonia e irrimediabile stucchevolezza con cui accompagnare la cerimonia tutta. Fomentando gli inevitabili mugugni dei molti che, con quella tragedia, hanno avuto loro malgrado direttamente a che fare e che con questa cerimonia, invece, neanche in cartolina. Il mugugno - tipica espressione di scontento e protesta marinara - è stato il sentimento del tempo, per dirla come Giorgio Caproni - insieme a Dino Campana bardo d'adozione della città almeno quanto Montale e gli altri poeti liguri di nascita - di questi due anni. Particolarmente duri. E particolarmente ironici, visto che di tutto lo sfoggio di soddisfazione di progettisti e politici, entusiasti per i tempi di realizzazione dell'opera, non c'è traccia tra familiari delle vittime, operai e soccorritori.
«Più che i segni divini in cielo», dice Stefano, operaio in cassa integrazione, «sarebbe bello che i politici cogliessero segnali più terreni. Come il fatto che i parenti non sono andati alla cerimonia, che i pompieri scrivono lettere in cui prendono le distanze e ammonisco il modello Genova, forse tutta 'sta armonia non c'è...». Molti pompieri, tanti intervenuti in quei giorni, hanno parole di biasimo per ogni pavoneggiamento. Come Emilio Vedelago, trentatrè anni, che fu il primo a intervenire quella mattina. Smontato dal turno di notte, stava andando al centro commerciale con la fidanzata quando il ponte gli è crollato settanta metri davanti. Ha salvato una mamma e una figlia, prima di chiamare suo padre Marco, all'epoca caporeparto a una settimana dalla pensione, che non dimenticherà mai l'intervento più difficile della sua carriera: «Avevo ancora la divisa addosso quando sono entrato nella doccia del distaccamento per lavare via il sangue, la polvere, la stanchezza e, non la paura, ma il dolore e la pietà di quello scenario di guerra. Ma che i pompieri in trincea sono pochi, perché tengono migliaia di precari non operativi, con pochi mezzi, sempre per risparmiare sulla sicurezza nostra e dei cittadini, con contratti offensivi e scaduti, non lo dicono mai...».
«Qualcuno comunque prima o poi la dovrà pagare», dice l'attempata barista del dopolavoro ferroviario in cui mi rifugio dalla pioggia a un avventore al banco che commenta amareggiato: «Tanto quelli che hanno intascato i pedaggi e risparmiato in manutenzione in galera non ce li mettono». Ma lei precisa: «Secondo me lo hanno fatto saltare». Il poveruomo non sa trattenersi e domanda: «Ma chi?». La barista, servendo bianchi amari senza soluzione di continuità, lascia riecheggiare un «eh, chi... chi..., chi vuoi che sia stato...», prima di cambiare argomento.
Smette di piovere, e nella vaga concitazione dei dintorni transennati alla zona ponte, si avvia verso casa una classe di lavoratori che si è rimboccata le maniche, come durante le alluvioni stagionali causate dalla stessa incuria che contraddistingue il lato oscuro del «modello Genova». In una città già congestionata da un traffico insopportabile prima del crollo si è diffuso uno spirito di resistenza contro l'autocommiserazione che oggi storce il naso di fronte all'autocompiacimento. In questi due anni è nata una Genova solidale che dai circoli operai si è allargata in reti di volontariato consolidate durante la quarantena e ancora oggi attive per portare latte, medicine e giornali ai più vulnerabili nelle periferie o affiggere striscioni sul porto, sopra la cittadella di container sotto la Lanterna, per dire benvenuti ai migranti. «Fa un certo effetto vedere così tanti stranieri a vendere bandierine italiane per strada, per compiacere tutta questa sete di orgoglio nazionale che abbiamo, quando tra le vittime del vecchio ponte, come nei cantieri per la costruzione del nuovo, la multietnicità, più che una posizione ideologica, è un dato di fatto», dice Laura, volontaria del 118 e della raccolta alimentare.
Vista dall'alto del nuovo ponte, Genova sembra in effetti rinata più resistente. Nonostante ristrutturazione e delocalizzazioni, le fabbriche sono rimaste aperte con buona pace di chi voleva farne spiagge e alberghi per turisti, nella quotidiana dialettica tra il virus dell'imprevidenza di chi amministra e l'orgoglio di chi produce. In questi giorni di macaia e mugugno, sarebbe bello godersi una città che sembra più generosa e operosa che mai. Ma una certa diffidenza è salutare. «Tra questa gente che osserva e si lamenta, pure Colombo è stato uno fra cento, e adesso in mare veleggia la rumenta, strana, Genova. Io questa notte ti vorrei parlare, e invece parto per mandarti a dire, che tu sei bella, sì, ma da ricordare...».
Non tra le sue più conosciute, Genova Blues, è una canzone di De Andrè in coppia con Baccini che con qualche amara malinconia riflette sul carattere cittadino, non sempre esattamente operoso e generoso. Potrebbe essere utile ricordare ad esempio che proprio il tre agosto del 1492 Cristoforo Colombo partiva alla scoperta dell'America. Ma da Palos, Portogallo. Mica da Genova.
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