Nel momento in cui la metafora smette di essere una trasposizione simbolica e si appiattisce sulla descrizione della realtà il cortocircuito è inevitabile. E ci spinge a riflettere sul significato autentico delle parole, sui pericoli che corriamo quando l'eccesso di retorica le distoglie dal loro habitat, per così dire, naturale. Tra le conseguenze più dirette della guerra in Ucraina c'è quella di aver rimesso le parole al loro posto, a livello mediatico e quindi nell'utilizzo quotidiano. Venti giorni di conflitto, se rapportati agli ultimi due anni della nostra vita e del mondo intero, hanno restituito al vocabolario comune quei termini per certi versi abusati durante la pandemia. Così oggi ricordiamo cosa vuol dire per davvero «coprifuoco»; riscopriamo il valore della «resistenza» contro un «nemico» stavolta molto ben visibile; vediamo con i nostri occhi il fango di una «trincea» con soldati e civili «in prima linea»; l'«isolamento» delle città cinte d'assedio, le «zone rosse» evacuate perché minacciate dai carri armati; infine celebriamo i moderni «eroi» che si oppongono all'invasore e alle sue armi di propaganda.
L'uso del linguaggio bellico ha avuto la responsabilità, specie nella prima fase dell'emergenza Covid, di semplificare la posta in gioco e di compattare l'opinione pubblica in nome di uno spirito patriottico sì a buon mercato, ma in qualche modo ritrovato. Medici, scienziati, politici e giornalisti hanno remato in questa direzione cogliendone i benefici nel breve periodo. L'altra faccia della medaglia, però, è stata aver svuotato di senso quelle stesse parole che sembravano così evocative. Già alla fine degli Anni Ottanta la filosofa Susan Sontag, ragionando sull'impatto dell'Aids nelle società occidentali, metteva in guardia dai rischi insiti nell'uso indiscriminato delle metafore belliche se adattate a contesti differenti. Esattamente come accade in un'economia di guerra, a lungo andare l'inflazione di termini militari ha impoverito il «potere d'acquisto» di quelle immagini nella coscienza collettiva. Col senno di poi, è innegabile che il «restare a casa» di allora ha ben poco di eroico in confronto a chi combatte restando a casa sotto le bombe di Kiev. A proposito del concetto di «resilienza», altra parola molto in voga e perfetta da sfoggiare sui social...
Venerdì, il 18 marzo, l'Italia dedicherà la seconda Giornata nazionale alla memoria delle vittime del
Coronavirus. Un minuto di silenzio e bandiere a mezz'asta in tutti gli edifici pubblici: è l'omaggio ai nostri 157mila morti da febbraio 2020. C'è chi preferisce chiamarli «caduti». Proprio come in guerra, ma senza retorica.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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