Perché a volte è bene che esista l'inferno

Matteo Messina Denaro è tornato a casa sua. All'inferno

Perché a volte è bene che esista l'inferno
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Matteo Messina Denaro è tornato a casa sua. All'inferno. Di fronte al male assoluto sentimenti nobili come la sumpatheia, cioè la compassione, faticano a risalire l'abisso in cui li abbiamo ricacciati. Sciogliere un bambino nell'acido come ha ordinato di fare lui con il piccolo Giuseppe Di Matteo è «l'impossibile che torna possibile», per usare le parole con cui Hannah Arendt tentava faticosamente di raccontare, anzi di razionalizzare il mostruoso nazismo. La mafia è a suo modo un'ideologia totalitaria, Matteo Messina Denaro era figlio dello stesso Novecento che ha visto materializzarsi le peggiori fantasie infernali «senza che il cielo cada o si spalanchi la terra», il padrino è stato uno strumento di Satana, né più né meno come Adolf Hitler o Josef Stalin, e non se ne è mai pentito. E oggi che cattolici e no si interrogano su ciò che questa morte suscita in noi, anche chi non crede in Dio o nel diavolo in fondo trova un po' di conforto all'idea che l'aldilà esista e che - per quest'uomo votato al male - la sua vita eterna sarà in un posto peggiore di quello che ha lasciato, un non luogo senza Dio «che mi fa tremar le vene e i polsi», come scrive Dante nell'Inferno.

Perché neanche Satana avrà sumpatheia di questo suo fedele servitore, troppo il sangue ignobilmente sparso, indicibile il dolore gratuito inferto e senza pagare alcun debito se non negli ultimi, miserabili mesi di vita che gli sono stati concessi. L'uomo del male è stato divorato da un altro male, eppure sarebbe rimasto impassibile di fronte a una morte ogni giorno più imminente. «Ha accettato la malattia con dignità», sostiene l'oncologo del carcere dell'Aquila che lo ha curato. Ma era una serenità solo apparente, una finzione come tutta la sua vita: lo dice il disprezzo sulle sue ultime volontà: «Rifiuto ogni celebrazione religiosa perché fatta di uomini immondi che vivono nell'odio e nel peccato», si legge in uno dei pizzini ritrovati dai Ros nel covo di Campobello di Mazara. Sarebbe ingenuo pensare che la Chiesa i funerali li avrebbe concessi - i mafiosi sono scomunicati, c'è un divieto esplicito - dunque questo gran rifiuto sa di furbata, come la volpe quando dice che l'irraggiungibile uva è acerba. No, di acerbo c'era la sua visione della religione à la carte, un'amara melassa mortifera che mescola santini e revolver. Quando la Chiesa proclamò beato don Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso da Cosa Nostra, infrangendo l'ipocrisia della mistica mafiosa, lui aveva vergato queste poche righe: «Non sono coloro che si proclamano i soldati di Dio a poter decidere e giustiziare il mio corpo esanime, non saranno questi a rifiutare le mie esequie. Dio non mi ha scomunicato perché è Dio», era la sua farneticante, financo infantile idea della religione fai da te.

«Si era già autoscomunicato - sottolinea monsignor Michele Pennisi, arcivescovo emerito di Monreale -, alla fine la Chiesa esercita un certo influsso sulla opinione pubblica e questo in qualche modo fa male ai boss» perché ne incrina la loro sacralità terrena. Chi è scappato da verità e giustizia non troverà neanche un anfratto dove nascondersi nell'abisso che lo aspetta. Eccola, l'eterna condanna.

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