Dalla cavalcata trionfale al pantano del rinvio. Sei mesi fa quella del referendum costituzionale doveva essere una sfida a testa alta e senza esitazioni a chi «non vuole il cambiamento», tanto che Matteo Renzi era arrivato a dire che in caso di vittoria del «no» non solo si sarebbe dimesso ma avrebbe addirittura «lasciato la politica». Era gennaio e passati sette mesi il premier sembra venuto a più miti consigli. Non solo il guanto di sfida è stato prudentemente rimesso in tasca, tanto che né il leader del Pd né altri ministri si sono più avventurati in dichiarazioni azzardate (pure Maria Elena Boschi e Pier Carlo Padoan avevano infatti detto che erano pronti a dimettersi in caso di sconfitta). Ma Renzi si è perfino trovato costretto a una democristianissima ammuina sulla data in cui si terrà il referendum confermativo sulle riforme. Quando l'approccio era quello del muro contro muro doveva essere a settembre, poi i sondaggi (che tuttora danno in vantaggio i «no») e gli inviti ripetuti del capo dello Stato Sergio Mattarella a tenere un profilo più prudente hanno portato ad uno slittamento progressivo. Prima fine settembre, poi inizio ottobre, infine novembre. Non i primi del mese, ma il 27 novembre ipotizzava ieri La Stampa. Insomma, dall'all in del «se perdo lascio la politica», in pochi mesi Renzi è passato all'impasse del rinvio. Un segno di debolezza enorme che, peraltro, non pare aiutare le ragioni del «sì».
Certo, i tempi della campagna elettorale si allungano di oltre 60 giorni e quanto sta accadendo in queste ore ai vertici della Rai (la sostituzione di Bianca Berlinguer alla direzione del Tg3 pare imminente e sarebbe dettata proprio dalla necessità di «normalizzare» il tg della terza rete in vista del referendum) lasciano supporre che a Palazzo Chigi si punti molto sullo sprint finale, soprattutto sul fronte della comunicazione. D'altra parte, la sfida tra «sì» e «no» stando ai sondaggi di questi giorni si gioca su pochi punti percentuali e dunque un impegno della Rai in questo senso potrebbe anche essere determinante.
Ma non è questa, con ogni probabilità, la ragione di un rinvio che sembra invece dettato da logiche più politiche. Si votasse a settembre e vincessero i «no», infatti, il governo si troverebbe ad affrontare una crisi con la legge di Stabilità ancora in fase embrionale (cioè non approvata in nessuno dei rami del Parlamento). E questa sarebbe un'arma decisiva di pressione su Renzi per costringerlo ad accettare quello che viene definito un governo di scopo. Un esecutivo, cioè, che per sua natura dovrebbe avere un obiettivo specifico, ma che poi - come spesso accade in casi del genere - avrebbe ottime possibilità di arrivare fino alla scadenza naturale della legislatura nel 2018. Diverso, invece, se i «no» dovessero prevalere a novembre, con la legge di Stabilità già approvata in un ramo del Parlamento. Per quanto sconfitto nelle urne, Renzi sarebbe decisamente più forte. Potrebbe ottenere, seppure dimissionario, che il suo esecutivo porti a casa il secondo voto sulla Stabilità e a quel punto la strada per le elezioni anticipate sarebbe più in discesa.
Anche perché in qualità di segretario del Pd sarà comunque Renzi a partecipare, a nome del principale partito di maggioranza, a eventuali consultazioni al Quirinale. Un'ipoteca non da poco su qualunque esecutivo di emergenza.
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