Nel corridoio dei passi perduti, quello che porta all'ingresso di Montecitorio che si affaccia su piazza del Parlamento, l'ex ministro delle infrastrutture del Conte due, Paola De Micheli, lettiana delle origini, mentre l'aula sta per licenziare il Recovery Plan, scruta in prospettiva i veri scogli che dovrà superare il bastimento di Mario Draghi. Ne parla con un'aria di malcelato compiacimento, di chi vittima della maggioranza extra large del dragone, ne coglie ora i possibili punti deboli. «Il piano non è mai stato un problema - spiega ora addirittura ci sono 31 miliardi in più. Il difficile verrà con le riforme. Se Draghi non raggiunge una pre-intesa nella maggioranza, l'esame parlamentare si trasformerà in un Vietnam. Torna la politica e sarà un rompicapo mettere insieme seguaci della flat tax, giustizialisti, e via decidendo... Come pure bisognerà vedere quanto saranno stringenti le condizionalità dell'Unione Europea sulle riforme per sborsare i soldi». Diciamoci la verità non è che la navigazione per il bastimento del capitano Draghi sia mai stata tranquilla da quando ha lasciato il porto. Ieri al Senato, nel corridoio del governo, si sentivano i riverberi dello scontro alla Camera sul coprifuoco. Renzi già al mattino aveva fatto sapere che in un tempo relativamente breve andrà tolto («dobbiamo ridare fiducia»), mentre nel pomeriggio nel corridoio dei ministri di Palazzo Madama un Giancarlo Giorgetti seduto in poltrona («mi sono rotto il menisco facendo su e giù con il ministero»), ascoltava, presente la forzista Licia Ronzulli, la rampogna di Matteo Salvini sulla dead line delle 22: «Qui a maggio, al massimo entro la metà del mese, ci dobbiamo togliere dalle scatole questa storia. Diglielo a Draghi». E alla fine leghisti, forzisti e renziani (gli incontri riservati tra queste tre aree in questi giorni si sprecano) sono riusciti a convincere il premier ad assumersi l'impegno di rivedere le regole degli «orari» e degli «spostamenti» il prossimo mese sulla base dei contagi e del progresso dei piani vaccinali, mentre Giorgia Meloni si è votata da sola il suo ordine del giorno sul tema, ribattezzato «o.d.g. propaganda». E ancora: alla presidenza del Senato, in queste ore, c'è pure il rompicapo degli emendamenti al decreto sostegni. Sono tutte questioni, però, su cui - tira una parte, tira dall'altra un'intesa alla fine si trova, magari accompagnata da qualche iniziativa collaterale che serve ai partiti della maggioranza a rimarcare la propria identità.
Sulle riforme, invece, qui è il punto, la sfida sarà più complessa. Anche perché si tratta di questioni che tengono il banco nel Paese da decenni e su cui si sono cristallizzate posizioni culturali per non dire ideologiche. C'è una parte della maggioranza, che parte dalla Lega, passa per Forza Italia, percorre Italia Viva e raggiunge anche qualche pezzo del Pd (l'ex capogruppo del Pd Marcucci si professa liberale dalla nascita) che su questi temi ha una filosofia liberale improntata alla crescita. E c'è un'altra anima, che per convinzione e per storia (la produzione legislativa del Conte Due ne è la prova), ha un'impostazione statalista che a volte risolve i problemi dello sviluppo, della modernizzazione, delle infrastrutture, imboccando la scorciatoia della decrescita per quanto riguarda l'economia o quella della conservazione sulla giustizia: si tratta di un pezzo del Pd, della sinistra, fino ai grillini. In una maggioranza così eterogenea gli accordi si potrebbero trovare tentando la strada di un minimo comun denominatore, giocando al ribasso (in fondo non si mai fatto niente e anche dei piccoli passi possono passare per una Rivoluzione), ma poi c'è la Ue che ha già fatto sapere al «garante» Draghi che non starà solo a guardare.
Eppure il premier ha promesso che entro dicembre saranno approvati 11 provvedimenti strutturali, solo che nel discorso distribuito alla Camera e al Senato mancava lo schemino cronologico che fino a domenica, nella bozza della relazione, appariva, cioè una sorta di linea temporale cadenzata da date. Probabilmente si tratta solo di un particolare illustrativo venuto meno, ma i problemi ci sono. Eccome. Inutile nasconderseli. Il leghista Claudio Durigon ne fa una disamina realistica: «Sul fisco non facciamoci illusioni, al massimo si arriverà ad una razionalizzazione e, magari, ad una diminuzione minima delle aliquote. Certo non possiamo pretendere la flat tax. Sulla giustizia si farà qualcosa, ma con una maggioranza così divisa non potremo andare a dama. Sulla green-economy faremo certo ma il Paese è troppo indietro per immaginare una rivoluzione: non si può mettere il motore di una Ferrari su una 500. Sulle pensioni, al di là di ogni ideologia, dobbiamo tenere conto che finito il blocco dei licenziamenti, le aziende ridurranno la forza lavoro: è meglio che licenzino i giovani o si liberino dei lavoratori più anziani? Io credo di quest'ultimi. Per cui bisogna trovare un anno sabbatico, una camera di compensazione per permettere a questi lavoratori di andare in pensione. Ma la vera partita, la vera riforma strutturale che si può fare, è la semplificazione, la riforma della burocrazia. Quella è essenziale. E basterebbe adottare il codice europeo degli appalti, mettendo da parte tutti gli orpelli che abbiamo. Se non si farà per le realizzazione delle opere pubbliche campa cavallo!».
Appunto, realismo è quello su cui puntano i leghisti: non per nulla ieri Salvini ha puntato molto proprio sulla semplificazione. Anche perché non vuole offrire a qualcuno l'occasione di tagliare «pezzi di maggioranza». Ieri l'ex vice ministro dell'economia del governo Conte, Misiani, ha ripetuto che non si può andare avanti con la politica dei «veti». Letta un giorno si e un altro pure provoca Salvini, ripetendo «se non è d'accordo esca fuori dal governo». Salvini, di contro, ancora ieri al Senato ha ripetuto: «Qui siamo e qui rimaniamo». Ovviamente, la partita si giocherà proprio sulle riforme con un premier, che non vuole lasciare nessuno indietro, nessuno fuori, ma che contemporaneamente non vuole ridurre neppure le ambizioni del suo progetto: ieri Draghi ha ripetuto più volte che bisogna puntare «al successo», che è necessario superare «l'inerzia istituzionale» che blocca da anni il Paese, che «c'è un nesso stretto tra riforme e politica economica, fiscale o altro, perché è l'occasione per dimostrare che si può fare una politica di bilancio non solo aumentando i tassi, ma spendendo bene»; solo che per raggiungere questi obiettivi il presupposto è «un'ampia intesa». Anche perché un'ampia maggioranza è anche la garanzia migliore da dare all'Europa che quelle riforme si faranno davvero: «La politica deve ritrovare il gusto del futuro ha spiegato Renzi nel suo intervento e non deve avere paura degli interessi costituiti». La partita della riforme è tutta qui, ma ci dovrebbe essere la consapevolezza generale che la sfida in positivo non è tra i partiti ma con l'Europa: «Dobbiamo ha spiegato il premier convincere i nostri partner che possiamo fare una politica fiscale comune, che possiamo mettere con fiducia i soldi insieme. Ciò gioverebbe all'Italia e alla sua fragilità».
In fondo è il motivo per cui c'è stato bisogno che a Palazzo Chigi arrivasse un personaggio come Draghi. «A che serve Draghi? A fare una telefonata risponde il renziano Michele Anzaldi quando è necessario alla von der Leyen».
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