Se sono i gatti a spiegarci i segreti della fisica

Il gatto più celebre della fisica è il gatto di Schrödinger, quello che è vivo e morto allo stesso tempo all'interno della scatola.

Se sono i gatti a spiegarci i segreti della fisica

Il gatto più celebre della fisica è il gatto di Schrödinger, quello che è vivo e morto allo stesso tempo all'interno della scatola - e che fu «sfruttato» dallo studioso austriaco per esemplificare i risultati, apparentemente paradossali, della meccanica quantistica. In realtà il gatto non subì, in quel caso, alcuna conseguenza fisica (nel senso di corporea) dai lavori di Schrödinger, ma ad altri suoi simili è andata meno liscia. Si racconta che, quando era a Leida, Cartesio avesse lanciato un felino dalla finestra per scoprire se avesse paura e, quindi, anche un'anima (qui non si discute delle idee cartesiane, bensì solo delle vicende scientifiche dei gatti...); al Trinity College di Cambridge, nella metà dell'Ottocento, si diceva che James Clerk Maxwell fosse «solito scagliare gatti dalla finestra», una leggenda che dava così fastidio al fisico scozzese che, in una lettera alla moglie Katherine, volle precisare il vero oggetto della sua ricerca, ovvero «scoprire a che velocità ruota un gatto» e, per fare ciò, non era necessario gettarlo brutalmente dalla finestra: gli bastava «far cadere il gatto su un tavolo o un letto da circa cinque centimetri». Quello che conta, a questo punto, è il risultato: e il risultato è che «anche così il gatto atterra in piedi».

È proprio questo, l'incredibile capacità dei gatti di uscire non solo indenni, ma anche ben fermi su quattro zampe praticamente da qualsiasi volo, ad avere affascinato per secoli gli uomini di scienza; tanto da meritarsi un intero saggio, Perché i gatti cadono sempre in piedi e altri misteri della fisica (il Saggiatore, pagg. 322, euro 23, traduzione di Luisa Doplicher e Daniele A. Gewurz), scritto da Gregory J. Gbur, professore di Fisica alla University of North Carolina e grande amante dei gatti. Anche Newton amava i gatti (si dice perfino che abbia inventato la gattaiola, la porticina a loro riservata, ma non ci sono prove, sostiene Gbur), Einstein ne gradiva la presenza e così pure Hubble, che trascorreva le notti di osservazioni astronomiche in compagnia del suo micio Nicolas Copernicus; Nikola Tesla fu colpito da bambino dai misteri dell'elettricità osservando il suo gatto e così ricordava quelle prime riflessioni sulla materia: «La natura è un gigantesco gatto? Se sì, chi le accarezza la schiena? Può essere solo Dio, conclusi» (aveva tre anni).

Tornando alle ricerche di Maxwell, il gatto riuscirebbe a raddrizzarsi perché, mentre ruota, cambia la velocità di rotazione muovendo le zampe: un'ipotesi che, a differenza della teoria del campo elettromagnetico, si è rivelata errata. Era, appunto, la metà dell'Ottocento, e bisognò aspettare fino alla fine del secolo affinché Étienne-Jules Marey, grande fisiologo francese, dimostrasse come le convinzioni correnti sul raddrizzamento dei gatti (si pensava che l'animale ottenesse il «momento angolare» spingendosi via da un oggetto all'inizio della caduta) fossero sbagliate: durante una concitata riunione dell'Accademia delle scienze di Parigi, nell'ottobre del 1894, Marey mostrò delle fotografie, scattate ad alta velocità, della caduta di un felino, che toglievano qualsiasi dubbio, ma fecero imbestialire gli studiosi della blasonata istituzione.

Come è possibile che un gatto che cade crei tanto scompiglio fra gli scienziati? È possibilissimo, anzi, ne causò ben altro: per esempio, ispirandosi alle scoperte di Marey e alla rotazione del gatto, Giuseppe Peano e Vito Volterra bisticciarono a proposito della paternità delle loro idee sulla rotazione della Terra; Marey era in contatto con Thomas Edison e i fratelli Lumière, e le sue fotografie sugli studi del movimento aiutarono lo sviluppo dei primi proiettori cinematografici, mentre Wilbur Wright raccontò di essersi interessato ai problemi del volo dopo avere letto un libro di Marey, Meccanismi animali. Tutto a partire dai gatti.

Dopo le scoperte di Einstein, anche le teorie di Marey furono costrette a revisione, e si scoprì che la fisica non bastava a rendere conto dell'abilità felina, bensì era necessario ricorrere anche alle neuroscienze, in particolare al funzionamento dei riflessi. Alla fine, più o meno, si è arrivati a una teoria esplicativa del fenomeno: si chiama «piega e torci», è stata elaborata da G.G.J. Rademaker e J.W.G. ter Braak nel 1935, e dice che, «piegandosi all'altezza della vita, il gatto può eseguire una rotazione contraria tra le due metà del corpo, elidendone i momenti angolari». Abbastanza complicato da aver messo il punto alla faccenda? Certo che no. Donald McDonald, fisiologo britannico, vent'anni dopo capì (sempre grazie a delle fotografie, scattate alla velocità di millecinquecento fotogrammi al secondo) che il gatto non ricorre a una sola strategia, bensì a varie strategie (corrispondenti a diverse teorie) a seconda del momento, della propria stazza, del proprio stile e delle necessità.

Insomma, il gatto non si lascia imprigionare da un solo metodo, o da una singola legge fisica. E questo ha fornito agli scienziati lo stimolo per studi e progressi tecnologici ulteriori: per esempio, la rotazione del gatto è stata oggetto di lunghe osservazioni di medicina spaziale, sia per indagare gli effetti dell'assenza di gravità, sia per individuare la strategia migliore, per gli astronauti, per girarsi a loro volta nello spazio. Il raddrizzamento del gatto è nel mirino della biorobotica, perché, se si riuscisse a riprodurlo, si realizzerebbero robot molto più flessibili e sicuri, anche su terreni insidiosi; però ricreare tale abilità è ancora difficile, anche con la tecnologia del XXI secolo.

I matematici studiano i gatti per scoprire quali regole sottostiano alla sua miracolosa rotazione, mentre nel 2015 alcuni ricercatori messicani hanno indagato le modalità di caduta di un gatto quantistico e si sono chiesti se anch'esso atterri in piedi, e la risposta è... beh, quantisticamente, sì e no.

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