Serve la cura del territorio non i proclami

L'attesa globale dei risultati del contrasto al cambiamento climatico non possono essere pretesto all'inerzia locale nel prendere le misure necessarie a contrastare i fenomeni meteorologici estremi

Serve la cura del territorio non i proclami
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Mentre ancora si cercano i dispersi nei parcheggi sotterranei allagati di Valencia, mentre ogni ora si aggiorna il doloroso conteggio delle vittime, mentre infuria la polemica per l'inadeguatezza dell'allarme e dei soccorsi, ovvero sulla organizzazione della Protezione Civile spagnola, si assiste ad un dibattito su quanto accaduto che appare per certi versi surreale, per approccio ideologico e soluzioni proposte. La terribile alluvione che ha devastato una delle più importanti città del Mediterraneo viene interpretata dai sacerdoti dell'ambiente come un presagio millenaristico a cui appare impossibile rispondere con misure tempestive, efficaci, localizzate, concrete. Se vogliamo salvarci dal nuovo «diluvio universale» l'umanità deve dapprima pentirsi per quanto realizzato negli ultimi due secoli di crescita economica, condannare la rapacità di quel mercato globalizzato che ha accresciuto benessere e aspettative di vita a miliardi di persone nel mondo, cambiare radicalmente il nostro modello di sviluppo e scontare i nostri peccati accettando una «decrescita», indispensabile moralmente ancor prima che ambientalmente. Insomma, ormai ogni fenomeno ambientale estremo non viene più affrontato analizzando la situazione locale, ma interpretato come presagio della nuova religione globale della transizione ecologica. Per evitare nuove Valencia in Spagna, nel futuro dobbiamo chiudere le fabbriche di auto in Italia e Germania, costruire piste ciclabili nelle città, riscaldare meno le nostre case, far viaggiare meno aerei, e potrei andare avanti. Il futuro dell'uomo si basa sul segno «meno» non sul segno «più».

Una analisi che ritengo profondamente influenzata da una ideologia pauperista e anticapitalista che ha trovato in una certa interpretazione dell'ambiente il suo nuovo Muro di Berlino e nei climatologi apocalittici i nuovi Marx. E che non tiene conto di una serie di dati di fatto. Il primo: nessuno nega i cambiamenti climatici in corso, ma alluvioni ed eventi estremi sono sempre esistiti. L'alluvione di Firenze, quella del Polesine fanno parte della nostra storia, tanto per ricordare due eventi relativamente recenti. Il mondo conosce tempeste ed inondazioni dall'albore dei tempi. Il secondo dato di fatto è che il nostro pianeta è passato, negli ultimi due secoli, da 1,5 miliardi di abitanti ad oltre 8 milioni. E quegli abitanti devono essere nutriti, vestiti, riscaldati, anelano a viaggiare, ad una vita sempre migliore. Perché questo accada il nostro Mondo deve continuare a crescere economicamente per soddisfare questi bisogni.

Allora, in attesa che le polveri sottili scendano, credo sarebbe opportuno ragionare di alzare i nostri argini, le nostre dighe, insomma le nostre difese. Perché l'attesa globale dei risultati del contrasto al cambiamento climatico non possono essere pretesto all'inerzia locale nel prendere le misure necessarie a contrastare i fenomeni meteorologici estremi. Anche perché questi non spariranno magicamente dalla nostra vita, anche quando, tra molti anni, fossimo riusciti ad invertire il famoso riscaldamento terrestre. Dunque, se la pioggia si è fatta più abbondante, servirà costruire un sistema di raccolta delle acque più capiente, canali e vasche di contenimento, se le onde sono più alte, dighe più robuste, scogliere, protezioni per le coste, se il vento più impetuoso, tecniche costruttive tali da contrastarlo. Oggi la tecnologia ci offre risposte per quasi ogni minaccia e i soldi spesi per riparare i disastri, solo in Europa circa 200 miliardi di euro all'anno, ci suggeriscono che sarebbe meglio investirli in prevenzione più che in risarcimento. Senza contare gli investimenti sui sistemi di prevenzione e di allarme per i cittadini, collegati ad efficienti piani di Protezione Civile che prevedano educazione dei cittadini ad affrontare le calamità e adeguate professionalità per gestire gli aiuti e gli interventi nelle emergenze.

Io credo che la lezione di Valencia sia una e una sola: le politiche globali di contrasto al cimate change non possono diventare alibi per non agire sulle infrastrutture necessarie alla nostra protezione. La parola d'ordine contro le catastrofi ambientali non può essere ritorno al passato, ma investimenti concreti per il futuro.

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