Storie incredibili, dalla seconda guerra mondiale alla Prima Repubblica, tra depistaggi, doppiogiochismo, fiumi di denaro e morti sospette. Professione 007 è la serie podcast nata dalla collaborazione tra Dark Side – storia segreta d’Italia e ilGiornale.it. Tutte le puntate della Stagione 1 sono pubblicate qui.
C’è fermento, nella questura di Milano. L’eco della bomba nella banca dell’Agricoltura di piazza Fontana assorda le orecchie di tutto il paese. Nessuno ancora lo sa, ma è soltanto il primo capitolo di quelli che passeranno alla storia come gli anni di Piombo. Un uomo fruga tra scatoloni e buste al chiuso di una stanza, cerca qualcosa, la trova. Alla luce gialla di una lampadina che penzola dal soffitto come un impiccato, si rigira tra le mani il frammento di un ordigno esploso. È quello che cercava. In quel momento, la porta alle sue spalle si apre. L’uomo sulla soglia resta immobile, tra le labbra un lungo bocchino d’avorio con una sigaretta accesa e il fumo che gli copre il volto. L’uomo nella stanza si volta e gli fa cenno di richiudere la porta.
Il depistaggio sulle indagini per la strage di piazza Fontana oggi è un dato acclarato, ma nel dicembre 1969 nessuno poteva immaginare che uomini dello Stato potessero brigare per deviare le indagini e facendo sparire preziosi reperti che avrebbero potuto già al tempo indirizzare gli inquirenti verso la pista giusta. Fu opera dell’Ufficio Affari riservati del Viminale guidato da Federico Umberto D’Amato. A guidare le operazioni sul campo a Milano è il suo braccio destro, Silvano Russomanno.
Classe 1924, soldato durante la Seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre si arruola nella Flak, la contraerea tedesca. Arrestato nel 1945 dagli Alleati, passa pochi mesi nel carcere di Coltano. È un personaggio interessante, Russomanno, un vero e proprio personaggio simbolo del lato oscuro della Repubblica. Ed è direttamente lui che, in un verbale reso ai magistrati della procura di Brescia nel 1997 e che ilGiornale.it può qui mostrare per la prima volta, racconta del suo primo contatto (casuale ovviamente…) col questore Gesualdo Barletta, primo capo dell’Ufficio Affari Riservati, che lo recluta e lo porta a Roma.
Terminato il conflitto, nel 1950 entra in polizia e subito viene spedito in uno dei fronti più caldi del dopoguerra, dove rimarrà fino al 1959: il Sud Tirolo. Nel racconto di Russomanno al Ros dei Carabinieri nel 1998 e qui presentato per la prima volta, questi si trova ad affrontare una situazione di emergenza anche dal punto di vista dell’organico e delle risorse dello Stato.
È qui che si trova il laboratorio della strategia della tensione che insanguinerà l’Italia negli anni a venire e Russomanno è un ottimo scienziato. In quella che è una zona di cerniera dove si muovono terroristi, contrabbandieri e spie, all’inizio degli anni Sessanta si verifica la prima serie di attentati sistematici a infrastrutture chiave del territorio. Il sospetto (forse qualcosa di più) è che ad armare la mano degli irredentisti sud tirolesi, che si battono per rivendicare l’identità tedesca della regione, sia stato proprio l’Ufficio Affari Riservati, nelle cui fila Russomanno entra ufficialmente solo alla fine del 1960.
Russomanno entra in contatto proprio in quegli anni con gli ambienti del neofascismo del Nord Est e in particolare quello Veneto. Le attività di questi gruppi vengono seguite in maniera discreta ma continua dagli Affari Riservati. Lo dimostra un fascicolo, trovato poi negli anni ’90 nel famoso deposito di via Appia, e che ricostruisce l’attentato avvenuto alla stazione di Verona il 30 agosto 1970. Nel verbale del 1997 reso ai magistrati della procura di Milano, qui presentato per la prima volta, Russomanno difende la riservatezza della sua rete di informatori sul territorio e poi, proprio sul finale, nega di conoscere il nome Zorzi.
Trasferito a Roma, il nostro uomo diventa ben presto il principale collaboratore di D’Amato, che ne apprezza il talento di fascicolatore metodico, ma soprattutto la sua capacità operativa. È proprio per questo che affida a lui il delicatissimo compito di recarsi a Milano nell’immediatezza della strage. È qui che Russomanno prende le redini delle indagini, mettendosi a capo della famigerata “Squadra 54”, ed è in questo contesto che si verificano fatti oscuri come la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli e la sparizione dei frammenti della bomba ritrovata inesplosa alla Banca commerciale di Milano lo stesso giorno della strage alla Banca dell’Agricoltura, una bomba inspiegabilmente fatta brillare, sottraendo così la possibilità di comparare i due ordigni.
Il clima di quei giorni concitati, con le tante ombre, le tante complicità, le troppe reticenze, viene descritto direttamente da Russomanno sempre ai magistrati milanesi, in un verbale del 1997, mostrato in anteprima da ilGiornale.it, soprattutto per quanto attiene ai rapporti con la “Squadra 54” e con gli informatori, ma anche col capo dell’allora squadra politica Antonino Allegra e il commissario Luigi Calabresi.
Negli anni a seguire Russomanno farà carriera. Già direttore della Divisione sicurezza interna dell’Ufficio Affari Riservati, diventa vice direttore del Sisde e direttore dell’Ufficio Sicurezza Patto Atlantico, in perfetta continuità con il suo mentore D’Amato. Il suo nome viene tirato in ballo praticamente in tutti i fatti oscuri della storia repubblicana. Perché Russomanno è uno che sa. Anche se decide solo di dire quel che può dire, magari quello che gli fa comodo. Come quando il giudice di Venezia Carlo Mastelloni lo interroga su Argo 16, l’aereo del 31º Stormo dell’Aeronautica Militare Italiana, precipitato nella zona industriale di Porto Marghera il 23 novembre 1973 poco dopo il decollo dall’aeroporto di Venezia-Tessera, causando la morte dei quattro membri dell’equipaggio. Nel verbale, qui presentato per la prima volta, Russomanno allude a un ruolo degli israeliani “anche se certo non me lo sarebbero venuti a dire…”.
In un successivo verbale, sempre reso al giudice Mastelloni, che ilGiornale.it è in grado qui di mostrare per la prima volta, Russomanno però ammette di aver attivato fonti internazionali, in particolare una attiva presso l’Ambasciata americana a Roma, a dimostrazione di quanto ramificati e forti fosse i rapporti internazionali dell’Ufficio Affari Riservati.
La sua scalata s’interrompe bruscamente nel 1980, quando sarà condannato a nove mesi di carcere per violazione del segreto d’ufficio: Russomanno è infatti accusato di aver passato i verbali segreti dell’interrogatorio di Patrizio Peci, il più famoso pentito delle Br, al giornalista del Messaggero Fabio Isman, a sua volta condannato.
Nel 1996 il suo nome torna alla ribalta con la scoperta dello storico Aldo Giannuli del suo archivio personale a Roma, in via Appia. Un deposito di fascicoli e dossier non protocollati raccolti negli anni della sua attività in seno all’Ufficio Affari riservati, documenti, lettere e rapporti che parlano di una frenetica attività spionistica, articolata nell’arco di quarant’anni. Interrogato dai magistrati che negli anni Novanta indagano su piazza Fontana e nell’ambito dell’inchiesta Argo16 (l’aereo dei servizi segreti precipitato nei pressi di Marghera nel 1973), il suo ruolo comincia a delinearsi, ma senza conseguenze sul piano penale.
Grande studioso ed esperto di dialettologia e glottologia e con l’hobby della pesca, Silvano Russomanno passa i suoi ultimi anni in disparte e morirà ultraottantenne nel suo letto, portando con sé molte verità che forse un giorno qualcuno scoverà in un altro archivio segreto.
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