Quello spot grottesco sull'evasione

Chi delinque va punito, ma trasformarlo in un nemico sociale a cui addebitare i problemi irrisolti non è tipico delle democrazie liberali

Quello spot grottesco sull'evasione

Poche ore fa, sulle pagine di questo giornale, il Direttore Sallusti ha sottolineato alcuni degli aspetti più caricaturali e grotteschi di uno spot contro l'evasione fiscale diffuso dal Governo.

Nessuno mette in dubbio la necessità da parte di tutti i cittadini di contribuire al bene comune con parte dei propri guadagni. E neppure la necessità di contrastare chi fraudolentemente non lo fa. Nel nostro Paese, infatti, l'evasione è male endemico. Tuttavia il messaggio rischia di essere fuorviante per un Governo che dovrebbe essere erede di quella «rivoluzione liberale» che fu la base della discesa in campo di Silvio Berlusconi e le fondamenta di una coalizione che ancora oggi guida il Paese.

«Le parole sono importanti - recitava un vecchio film -, chi parla bene, pensa bene e agisce bene». Ecco, le parole di quello spot, le suggestioni che evoca, il messaggio sociale che trasmette, rischiano di apparire totalmente antitetici ai principi stessi del liberalismo politico. Per molte ragioni.

Provo ad elencarle. La prima ragione è che per un sistema politico che mette al centro la libertà dell'uomo la repressione dello Stato è talvolta una dolorosa necessità, non certo un elemento qualificante dell'azione di Governo. Certo, chi delinque va punito, ma trasformarlo in un nemico sociale a cui addebitare i problemi irrisolti è tipico dei regimi, non delle democrazie liberali. Non a caso, durante le grandi carestie o nei momenti di difficoltà economica, l'Unione Sovietica processava i presunti nemici del popolo, invece di interrogarsi sulle inefficienze del proprio sistema di produzione e distribuzione della ricchezza.

La seconda ragione di perplessità legata al linguaggio di quel filmato è collegata allo stereotipo dell'evasore: un signore vestito alla moda che anela ad una vita di agi fatta di cibi e vini costosi. Tale caricaturale descrizione, come ha già scritto questo giornale, farebbe sorridere, se non fosse tesa a screditare un comportamento sociale, accomunandolo al reato di evasione. Quasi che, chi aspiri ad una vita di agi e di lussi, più o meno discutibili stando alle regole del galateo, fosse anche portatore di un modello di per sé esecrabile. Il contrario di un messaggio liberale, che fa dell'arbitrio della persona, della sua voglia di elevazione sociale ed economica, dell'esaltazione dell'ascensore sociale il suo fulcro centrale.

Il tono moralistico con il quale si descrivono comportamenti forse un po' cafoni, ma certamente consentiti e per certi aspetti anche auspicabili, come l'acquisto di beni di lusso, conferisce al messaggio un tono moralistico totalmente estraneo ai principi liberali della politica e liberisti dell'economia. Quanta distanza dal «sole in tasca» di berlusconiana memoria, che esaltava l'intraprendenza e la voglia di successo come motore di crescita della comunità.

In ultimo, nessun ragionamento sulle tasse può prescindere da una considerazione sul livello di fiscalità e sull'utilizzo delle stesse. Non a caso il programma del centro-destra di Governo, dall'inizio della Seconda repubblica, non ha mai mancato di ribadire la necessità di portare la pressione fiscale al 30 per cento, ovvero quel terzo dei propri guadagni che ogni uomo considera corretto devolvere alle esigenze della comunità, considerando invece eccessiva ogni pretesa superiore. Su questo assunto si reggono le grandi riforme liberali, a partire da quella reaganiana dell'America degli anni Ottanta, che portò a crescite di ricchezza significative per l'intero sistema.

Evidente che per ridurre le tasse, occorre tagliare la spesa pubblica. Su questo il Governo, con il piano di razionalizzazione che dovrebbe portare al 5 per cento dei risparmi di tutti i ministeri, ha avviato meritoriamente un percorso. Tuttavia lo ha fatto senza entrare nel merito della qualità e della struttura di tale spesa, quasi che a dettare l'agenda fossero gli slogan dell'opposizione: sanità pubblica, scuola pubblica, estese tutele sociali scollegate dal merito, come il triste esempio del reddito di cittadinanza. Vedete: immaginare un finanziere contestare un'evasione fiscale ad un cittadino i cui soldi vengono poi spesi dallo Stato per pagare uno stipendio a chi non lavora e neppure un lavoro cerca, contrasta con qualsiasi messaggio liberale. Ora, quella distorsione politica è stata tra le prime riforme di questo Governo, ma ovviamente non basta. Per risolvere il tema di una spesa pubblica altissima, legata ovviamente a livelli di tassazione altrettanto alti, servirebbe dare il via ad una rivoluzione di sistema, che porti efficienza senza diminuire significativamente i diritti, ma superando slogan e paure. Mi spiego: per un liberale lo Stato non nasce per gestire ospedali, scuole, infrastrutture, ma per garantire servizi sanitari, istruzione, mobilità ai cittadini. E allora la strada maestra non è la sanità pubblica sbandierata dal «campo largo», ma semmai servizi sanitari gratuiti ed efficienti per i cittadini, siano essi erogati dal pubblico o dal privato. Si chiama sussidiarietà, altro tema centrale della politica liberale, un po' dimenticato.

E ancora, un'istruzione accessibile e di qualità, chiunque dispensi questo servizio con maggiore equilibrio economico, e via dicendo.

Senza una decisa revisione della struttura della nostra spesa pubblica, non riusciremo ad abbattere significativamente le tasse. Senza una significativa riduzione delle tasse, la repressione dell'evasione, pur legittima, anzi dovuta e necessaria, non è destinata a portare significativi benefici.

E allora, se uno spot sulle tasse va fatto, lo slogan non può essere: «Io non pago le tasse e l'aragosta me la paga lui, che invece è un contribuente onesto».

Lo slogan di una riforma liberale che resta nel cuore a chi non ha smesso di crederci può essere solo: «L'aragosta la mangiamo tutti, perché paghiamo tutti le tasse e lo facciamo volentieri, perché ne paghiamo una giusta quantità e lo Stato non spreca i nostri soldi».

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