Processo alla Michelin in dieci capi d’accusa

Mai come quest’anno l’edizione italiana della guida rossa dei ristoranti ha suscitato polemiche e incomprensioni. Naturalmente i giudizi sono per natura insindacabili, ma al di là delle stelle date o tolte esistono punti deboli e contraddizioni che sono diventati ormai intollerabili per uno strumento così prestigioso. Che rischia di perdere credibilità facendo male a tutto il sistema

Processo alla Michelin in dieci capi d’accusa

Michelin ha sempre diviso esperti, addetti ai lavori e gourmet tra adoratori e detrattori, di solito divisi in funzione di quanto le valutazioni dei suoi curatori corrispondano ai propri interessi e alle proprie predilezioni. Quindi nulla di nuovo sotto il sole. Del resto, è lecito che la critica sia soggettiva e che ogni guida abbia un suo criterio di giudizio e una sua linea editoriale. L’edizione 2025 presentata una ventina di giorni fa a Modena ha però fatto il record di critiche e sta avanzando il partito di coloro che ritengono la Michelin ormai inadeguata a dare le carte dell’alta ristorazione italiana. Naturalmente saremmo degli ingenui a pensare di intaccare il prestigio che la guida rossa vanta nel nostro Paese: una stella Michelin cambia ancora il destino di un locale, anche se l’impatto economico di un “macaron” sul territorio è ben lontano da quello decantato dai “gommisti” francesi. Ma forse, deposte le polveri delle polemiche più aspre, è giunto il momento di mettere ordine tra tutti i cahier de doléance e istruire una causa con dieci capi di accusa alla Michelin.

Conservatorismo: La Michelin ormai non valorizza più l’avanguardia, che può essere l’unica risposta possibile all’indubbia crisi del fine dining. Non può essere certo il manierismo, il classicismo a scrivere il futuro della nostra alta gastronomia. E finché si continuerà a ritenere certi locali vecchio stile meritevoli del macaron e non, ad esempio, Alberto Gipponi di Dina a Gussago, l’Italia secondo la Michelin sarà sempre un Paese gastronomicamente di retroguardia.

Standardizzazione: E’ il corollario del punto precedente. Consegnare una stella a ogni locale che i grandi nomi della cucina italiana aprono vuol dire appiattire l’alta cucina italiana a un repertorio di catene di brand di lusso: Enrico Bartolini e Antonino Cannavacciuolo sono i due simboli di questa tendenza che finisce solo per omologare (anche se verso l’alto) il codice dell’alta cucina italiana.

Conformismo: Esiste quasi un protocollo per ottenere e mantenere la stella Michelin. Se ne accorge chi come me frequenta assiduamente i locali fine dining. E’ spesso difficile distinguere una serie di insegne monostellate senza coraggio né innovazione, nelle quali mangi bene, per carità (ma dove si mangia più davvero male, suvvia?) però il giorno dopo già ti sei dimenticato della cena tanto è uguale a tante altre che hai fatto nelle settimane e nei mesi precedenti.

Limitazione: Lo diciamo da anni: ignorare totalmente le pizzerie e le trattorie di alto livello vuol dire mortificare l’intero movimento gastronomico italiano, che ha tratto linfa anche in momenti di transizione da format più freschi e innovativi, che però la Michelin non ritiene meritevoli di stelle o riconoscimenti. Il tutto mentre a Singapore ci sono noodle bar con la stella e lo stesso accade a modesti locali di Bangkok e Singapore. E poi ci vengono a dire che la Michelin è uguale in tutto il mondo.

Ipocrisia: A questa anomalia se ne lega un’altra. I cinque criteri utilizzati dalla Michelin per valutare i ristoranti sono, per loro stessa ammissione: la qualità degli ingredienti, l’armonia dei sapori, la padronanza delle tecniche culinarie, la personalità dello chef e la coerenza del menù nel tempo. Non ci sono riferimenti alla sala di cui tutti vantano l’importanza in questa epoca storica, alla carta dei vini, al rapporto qualità/prezzo, alla bellezza e al comfort del locale, elementi che contribuiscono indubbiamente al benessere di un cliente. Ma comunque, facendo un passo indietro: se proprio conta solo la cucina e non la tovaglia, perché escludere le trattorie?

Vendicatività: La Michelin è ostinatamente contraria a chiunque la infastidisca o la contraddica: provate a chiedere a Eugenio Boer che chiunque tra i giornalisti del settore indicherà come migliore della gran parte dei ristoranti monostellati di Milano ma che una stella da otto anni non la vede soltanto perché nel 2016 la conquistò da Essenza pochi giorni prima di lasciare lo stesso ristorante. La Michelin si offese per non essere stata avvertita di una scelta probabilmente già programmata e da allora ha lanciato una fatwa contro lo chef italo-olandese. Tutti hanno diritto di coltivare per tutto il tempo desiderato i propri rancori, per carità, ma alla fine dov’è lo spirito di servizio nei confronti del lettore?

Immobilismo: La Michelin non ama aggiornare le proprie schede, e questa è una fissazione di un critico di lungo corso come Edoardo Raspelli, che ogni anno si diverte a confrontare le recensioni delle varie edizioni della rossa. Quest’anno, per esempio, fa notare che la descrizione di un ristorante di Bordighera è più o meno identica dal 2017 e quella di un locale della provincia di Verona addirittura copia-e-incolla, aggettivo più aggettivo meno, di quella del 2009.

Mancanza di dialogo: Una delle cose che fa impazzire ristoratori, chef e giornalisti è che da sempre i giudizi della Michelin calano in autunno come un oracolo indiscutibile. E se nessuno può sindacare l’autonomia di un giudizio che in quanto tale è per definizione soggettivo, è certo molto frustrante per chef che si aspettano di capire dove sbagliano, non ricevere mai una risposta credibile se non il: noi siamo noi e voi… Vabbè, continuate voi.

Confusione: L’introduzione della stella verde, qualche anno fa, è stato un segnale di attenzione per i temi della sostenibilità indubbiamente positivo, ma ha contribuito a confondere le acque, perché non si capisce il valore esatto di questa onorificenza, soprattutto quando è associata a un ristorante che la stella rossa non ce l’ha. Un contentino? Uno stimolo? Un antipasto? Non si sa.

Arbitrarietà La Michelin si impanca a giudice supremo ma non sembra essere severo allo stesso modo con tutti. Quest’anno, per esempio, ha cancellato di botto dalla guida il Piccolo Lago di Mergozzo dello chef Marco Sacco, passato da due stelle alla damnatio memoriae, a causa della condanna in primo grado per un’intossicazione alimentare avvenuta per delle vongole crude (naturalmente si tratta di una ipotesi, non essendoci stata nessuna presa di posizione ufficiale da parte della rossa, vedi punto 8). Ci starebbe pure.

Peccato che qualche anno fa quando Giorgio Pinchiorri patteggiò una condanna a quattro anni per stalking su una ex dipendente la Michelin non abbia fatto un plissé confermando sempre le tre stelle all’Enoteca fiorentina. Casi diversi, certo, ma non si può non collegarli.

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