Gianfranco Vissani, cuoco, chef (due cose diverse) nato il 22 novembre del Cinquantuno nel Novecento, umbro, secondo la guida dell'Espresso migliore ristorante d'Italia nel 1982, 1998 prima stella Michelin, dal 1999 due stelle, primo della graduatoria del Gambero Rosso nel 2012, laurea honoris causa all'università degli studi di Camerino.
Vissani, c'erano già le premesse nel nome antico del paese di nascita, Civitella de' Pazzi, prima che divenisse Civitella del Lago.
«Lo ammetto, un po' pazzo lo sono e da sempre. Diciamo discolo. Nato in casa grazie all'arte della levatrice».
Mario, suo padre, lavorava con i mattoni.
«Cottimista nel cemento armato, in una notte tirava su tre piani di casa. Io fumavo e nascondevo le sigarette sotto i mattoni».
Mamma Eleonora?
«Casalinga, mi aiutava ad asciugare le posate ma sapeva cucinare. Aveva inventato il finto sugo, due pomodori, una carota, un sedano, mezza cipolla. Io andavo matto per gli umidi, la cacciatora. Mamma preparava pasta fresca e la mangiavo cruda sul tavolo di marmo».
Il tavolo al quale la legava.
«Per punizione, quando ne avevo fatta una delle mie. Poi chiamavo i cuginetti e slegavano la corda».
Scuola a fatica, poca voglia di studiare.
«Elementari e medie, la scuola stava attaccata a casa, mi sporgevo dalla finestra e chiedevo a mamma di prepararmi un panino alto tre volte. Odiavo la matematica ma Giuliana, mia cugina insegnante della materia, mi trasformò in un mostro di numeri, aritmetica e geometria. Poi giocavo a pallone, ala sinistra, non male. Mio padre voleva che diventassi ingegnere».
Invece?
«Il professore di matematica consigliò ai miei di mandarmi alla scuola alberghiera di Spoleto, avevo tredici anni, il preside si chiamava De Martis, un grande. Mi disse che avevo una bella presenza e voleva mandarmi in sala, rifiutai, voglio andare in cucina. Cinque anni intensi, all'esame finale pensavano fossi il peggiore per come mi ero comportato negli studi. Li spiazzai, fui il migliore, il primo».
Arriva il servizio militare.
«Aeronautica a Grosseto. Scoprii il nonnismo, tre tipi continuavano a molestarmi, li buttai giù dal balcone del piano rialzato, tutti e tre. Da quel momento non mi sfiorarono più».
Si parla del nonnismo in cucina.
«Una volta volavano i coltelli, ne ho visto uno passarmi davanti e finire conficcato nella porta a soffietto della cucina del ristorante. Oggi volano soprattutto le parole, gli insulti, le incazzature. I nuovi cuochi si occupano di tutto ma non sanno più cucinare, sono spadellatori».
Finita la leva si va a Venezia.
«Commis all'hotel Excelsior, scongelavo carne del 1942 della Jugoslavia. Lo chef era Mario Borsi, mi faceva la schiena e altro, a pezzi. Quindi Miramonti Majestic a Cortina, il Grand Hotel a Firenze, dieci giorni in tutto, quindi Zi' Teresa a Napoli e infine Roma. Un compagno di brigata mi dice di andare all'Excelsior, sono commis e conosco l'uomo che ha cambiato la mia storia, Giovanni Cavina, sono a Villa Miani, venticinquemila lire al mese, incontro il maitre d'hotel più elegante e importante della mia carriera, si chiamava Maresca e una sera gli chiedo se posso mangiare una mousse, l'ultima rimasta dal menù. Maresca acconsente ma arriva come cliente ospite il primo ministro di Finlandia che chiede proprio la mousse. Attimo di imbarazzo e di panico, Cavina infuriato chiede chi sia stato, ammetto la colpa, parte un cazzotto che mi stona e lui mi dice si lasciare subito il ristorante e di non farmi più vedere».
Poi?
«Lui non aveva la patente, io ogni mattina andavo a prenderlo in via Cola di Rienzo per poi riportarlo a casa la sera. Il giorno dopo la notte della mousse mi presentai sotto casa e lui aprì la portiera e mi disse Dudù te vojo troppo bbene».
C'è anche Rosati?
«Sì, Italcementi, Pesenti era il proprietario, stipendio di 162mila mensili. Ci sarebbe la possibilità di andare a Londra, mamma piange, resto a Roma, vado da Checchino al Mattatoio poi ricevo un'offerta da lo Zio d'America, zona Talenti, a 19 anni sono chef di cucina, mezzo milione».
Abbiamo tralasciato il ristorante di papà Mario.
«Il Padrino, duecento, trecento coperti, la sua avventura in cucina. Ma avevo altre idee, il mio mondo stava altrove, sognavo l'America».
Che arriva con il volo Pan Am da Fiumicino.
«Una signora americana che aveva provato la mia cucina aveva chiesto alla regione umbra un cuoco da portare in America. I politici proposero un nome, la signora replicò, voglio Vissani. Los Angeles, ristorante Rex di Mauro Vincenti, la seconda figura decisiva della mia vita, trecentomila dollari l'anno, gente di ogni razza e ceto sociale, attori, cantanti, registi, politici ma avevo nostalgia del mio Paese».
Dunque il ristorante Vissani.
«Mi dissero, non ti sembra esagerato? Ma chi se ne frega, io so io, papà mi aiuta a mettere su la struttura, poi cambiali, sacrifici, notti insonni».
E insieme il matrimonio con Giovanna.
«Svenni davanti alla chiesa, Santa Francesca Romana, stava accadendo troppo tutto insieme e io volevo vivere altro».
Come nasce la storia delle scarpe rosse?
«Rosso, per mamma è il colore anti iella. Le indossai per una sponsorizzazione di un'acqua minerale, non le tolgo più».
Superstizioso?
«Una notte, saranno state le tre, a Saint Moritz mi è passato davanti un gatto nero, ho fatto l'alba aspettando che un'auto mi sorpassasse».
Una famiglia forte.
«Mia sorella Rossana, poi Paola che sta con me al ristorante e mio figlio Luca. Non sono stato un grande padre, mi dispiace, il lavoro, il mio carattere. Anche mia madre mi diceva, ti sei dimenticata di me.
Ho fatto il possibile, ho commesso errori, ho pagato per questi ma ho dato amore e non sempre sono stato ricambiato».Nostalgia di un cazzotto, tre giù dal balcone e un tavolo di marmo per legare Vissani Gianfranco da Civitella de' Pazzi.
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