Una donna iraniana, Zaynab Kazemi, è stata condannata a 74 frustate da un tribunale di Teheran. Non ha fatto male a una mosca, ma sfidato gli ayatollah togliendosi il velo e gettandolo a terra in segno di protesta. La sfida è avvenuta a febbraio durante un evento dell’ordine degli ingegneri iraniani, che non ammettono la candidatura delle donne se non portano rigorosamente il velo.
Gli stessi parrucconi del Corano, dopo la condanna per «offesa alla pubblica decenza», hanno sospeso la pena per cinque anni forse rendendosi conto che pure per gli ayatollah è troppo. Però, se la reproba ci ricasca, la sentenza sarà eseguita dal boia con la frusta. La coraggiosa donna ingegnere piuttosto che piegare la testa ha rilanciato su Instagram: «Non mi sono mai pentita di avere alzato la voce per la giustizia contro l’oppressione e ancora non mi sento pentita».
Nel mondo alla rovescia d’agosto una cinquantina di girantodine nostrane ha organizzato un flash mob, allo stabilimento Pedocin di Trieste, in difesa di un gruppetto di donne velate che aveva fatto il bagno alla talebena coperte dalla testa ai piedi. Femministe di sinistra con una capetta musulmana candidata di Open che straparlava di islamofobia. Il tutto con cartelli ecoassurdi e l’immancabile Bella Ciao. Chissà se organizzeranno un girotondo per la donna iraniana che rischia 74 frustate per la sua lotta contro l’imposizione del velo. E se ricorderanno che fra pochi giorni, il 16 settembre, cade il primo anniversario della scomparsa di Mahsa Amini, la 22enne di origini curde morta fra le grinfie della polizia religiosa perché non indossava bene il velo. La sua tragica fine ha scatenato un’ondata di proteste, mai completamente sopita, che potrebbe riesplodere nei prossimi giorni.
E per un’intervista al padre di Mahsa la giornalista Nazila Maroufian era stata arrestata per poi venire sbattuta di nuovo dietro le sbarre «colpevole» di avere diffuso sui social media una sua foto senza il velo criticando il regime. L’accusa, implacabile, è di «propaganda contro il sistema». In una telefonata, pochi giorni fa, dal carcere inferno di Evin a Teheran, ha raccontato di avere subito abusi sessuali dai suoi carcerieri.
Forse la Commissione Ue dovrebbe pensare alle donne iraniane prima di sfornare ripetuti spot con donne velate in Europa in nome dell’inclusività a tutti i costi.
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