Dobbiamo tornare a mettere in scena non l’Uomo, ma Io

Ciò che ci attendiamo è che l’opera d’arte contenga un messaggio riservato "a me"

Dobbiamo tornare a mettere in scena non l’Uomo, ma Io

Nell’isteria generale, editori e giornalisti culturali continuano a ripetere leggete leggete e non sanno dire altro, come se un buon libro bastasse per dare una risposta alle domande che si agitano in noi in questa situazione senza precedenti. E concordo con Michela Marzano, come me lettrice compulsiva, quando dice di non essere capace di leggere in tempo di clausura. È una quarantena difficile, e le difficoltà vanno guardate in faccia. I teatri, templi dedicati al grande rito del noi, sono chiusi. In una società che si frammenta (suppongo che la frammentazione sia un carattere maligno di tutte le società) il teatro aiuta a entrare nello spazio di un sentimento comune, che è la premessa per capire. E dunque, quale teatro al tempo del covid19? L’immagine, diffusa domenica scorsa, del Papa a passeggio per una Roma solitaria, bellissima e tristissima, mi ha fatto tornare alla mente un desiderio che nutrii quando ero ragazzo, un sogno a occhi aperti, che in seguito avrei dimenticato. È il caso di riproporlo adesso. Vorrei realizzare uno spettacolo per passeggiatori solitari. Gente che cammina per il centro di Milano (nel rispetto delle distanze di sicurezza) o di qualunque altra città italiana e non può avere contatti fisici con altre persone. Immaginiamo Milano come un grande teatro che contiene, in un unico spazio, spettacolo e spettatori. Sarà uno spettacolo musicale. Perché la musica? Perché le parole non ci mancano, i ragionamenti non ci mancano, e nemmeno gli esempi. E poi perché spesso le parole dividono, generano accordi e disaccordi, e in un tempo in cui i corpi si allontanano è meglio non insistere con le parole, che possono creare unanimità ma anche unanimismo, discussione ma anche polemica inutile. La musica, quando è grande musica, è come una sorta di abbraccio, capace di avvicinare i lontani, scava nella memoria facendo riaffiorare tesori sepolti, meraviglie dimenticate, e giunge dove le parole non possono arrivare, dove la loro impotenza solleva muri. Ma la musica attraversa i muri, li ignora. Scelgo la musica sinfonica, oppure (con un impegno tecnologico di poco superiore) concertistica: per pianoforte e orchestra, violino e orchestra e così via. In questo c’è un elemento di arbitrarietà (non amo l’opera lirica) ma anche uno che risponde a necessità: desidero offrire ai miei passeggiatori solitari una musica scritta per molti strumenti, quindi non musica da camera. Eviterei anche il jazz non perché non lo ami ma perché, in questa mia idea di spettacolo, l’improvvisazione non risulterebbe valorizzata come merita, e si confonderebbe troppo con l’esibizione, con la performance. Scelgo, poi, della musica che sia nota ma non così celebre da essersi mutata, suo malgrado, in una sorta di monumento indiscutibile. Non, quindi, la Nona Sinfonia di Beethoven (che pure sarebbe l’opera ideale), meglio la Terza, o la sublime Ottava. Oppure la Prima Sinfonia di Brahms. O la Prima Sinfonia di Mahler. O ancora la Sinfonia 41 di Mozart (la Jupiter) e non la 40. Per esigenze teatrali facilmente comprensibili - la produzione cioè di un’azione drammatica che conduca allo scioglimento finale della medesima - saranno privilegiate le opere in cui dolore, paura, rincrescimento, nostalgia, malinconia si sciolgano alla fine in quella cosa misteriosa che chiamiamo inno, ossia in quel momento dove il dramma, lungi dall’essere ridotto a nulla, si conserva orientando lo sguardo non più verso l’oscurità ma verso la luce, e quindi verso il canto corale. Nell’unico spazio della città musicisti e spettatori/passeggianti contribuiranno in egual misura al risultato dello spettacolo, secondo un movimento duplice risultante dalla combinazione di due movimenti diversi: quello di chi passeggia tra una via e l’altra, da una piazza all’altra, e quello messo in atto dall’azione dei musicisti. Questi ultimi saranno dislocati, con il loro strumento, uno schermo piccolo e uno grande e un impianto di amplificazione, ciascuno (o in due, secondo le esigenze della partitura) in un punto diverso della città: in fondo a una piazza, su un incrocio (come gli artisti di strada), talvolta sul balcone di un primo piano, ma non di più. Il suono dello strumento sarà amplificato in loco: ogni musicista avrà il suo che - sempre sul modello degli artisti di strada - potrà estendere il raggio della musica, la sua percepibilità, fino a riempire tutto lo spazio in cui viene generato: questa piazza, questa via, questo scorcio, in modo che ogni angolo della città sia definito dal prevalere di «quello» strumento sull’eco degli altri, provenienti da più lontano. Lo schermo grande, da porre nelle vicinanze dello strumentista, servirà a riprodurre la sua immagine così da renderla meglio visibile da lontano, mentre lo schermo piccolo servirà allo strumentista stesso e riprodurrà l’immagine del Direttore, che chiuso in un teatro (per esempio la Scala) e circondato da tanti schermi (contenenti a loro volta le immagini dei diversi strumentisti) dirigerà la sinfonia. Tutta questa descrizione più o meno tecnica serve a visualizzare nel modo meno approssimativo possibile l’effetto finale cui questa azione dovrebbe dare luogo. Immaginiamo di addentrarci nel centro della città, camminando ciascuno con il proprio passo abituale: chi più lentamente, chi più rapidamente, chi facendo molte soste, chi senza fermarsi. Qualcuno corre, qualcuno si ferma a lungo, guardandosi intorno. In qualunque punto della città si trovi, il passeggiatore si immergerà nella musica. Ma la musica, pur trattandosi della stessa sinfonia, gli giungerà in modo diverso a seconda del punto in cui si trova e dello strumento a lui più vicino. Potrà essere il primo violino, o il pianoforte, o un altro strumento con propensioni solistiche, e allora tutta la sinfonia apparirà come una coda, uno sciame sonoro trascinato dall’imponenza e dall’autorevolezza dello strumento-guida. Potremo trovarci, anzi questo accadrà più spesso, nei pressi di uno strumento apparentemente secondario, come l’arpa, i timpani, un controfagotto, e allora scopriremo, da quel particolare angolo d’ascolto, la bellezza di tutti particolari, la loro pertinenza, e potremo apprezzare meglio il pensiero generale del grande musicista, che compone i suoi capolavori pensandoli come un tutt’uno: perché la sinfonia, prima di giungere alla carta, suona nel cuore del compositore, e suona tutta intera, con i violini e i violoncelli, i legni, gli ottoni, l’arpa... E forse, in questo modo impareremo meglio ad apprezzare l’utilità di tutti, a stimare ciò che, a uno sguardo distratto, potrebbe apparire come non stimabile, a concedere a tutto una seconda possibilità, sempre. Camminando, lo spettatore modificherà continuamente l’angolo d’ascolto, passando accanto ora al violino, ora all’ottavino, ora al clarinetto, e ciascuno di questi strumenti sarà accompagnato, in modo sempre differente ma sempre uguale, da tutta la musica. Una musica che, data la lentezza della propagazione del suono, gli apparirà leggermente sfasata e caotica, obbligandolo a ricostruire dentro di sé quella bellezza e quell’ordine che nessuna sfasatura può cancellare. E poiché ciascuno di noi occuperà una posizione differente da quella di ciascun altro, e compirà percorsi differenti con differente andatura, ciascuno vivrà un modo personale, unico di penetrare dentro la sinfonia, e potrà dire senza tema di smentita di avere ascoltato quella sinfonia come nessuno l’aveva mai ascoltata prima. Non è questo ciò che ci attendiamo da un’opera d’arte? Che, cioè, in essa sia contenuto un messaggio riservato solo a me, a te? L’arte non è quella cosa che, per statuto, oltrepassa i confini della filologia e di tutti gli specialismi per giungere a me e solo a me? E, per dirla tutta: non è questo che ciascuno di noi desidera dalla propria vita, incontrare cioè qualcuno o qualcosa (la tradizione lo chiama Dio) che ci riveli a noi stessi, che mi dica chi sono io, ma proprio io-io e non soltanto l’Uomo in generale? Non è di lettere minuscole che abbiamo bisogno (visto anche tutto il disastro che hanno fatto e fanno quelle maiuscole)? Certo, va da sé che, se io avessi i soldi per allestire un simile spettacolo, li destinerei prima agli ospedali e alla cura di chi soffre. Io non credo che leggere un libro nell’epoca del coronavirus serva a molto, in sé. Nella maggioranza dei casi rischia di essere un passatempo come un altro.

Ma leggere un libro che qui, adesso, mi parla di me, e di questo «me» che si trova qui, adesso, non è forse una cosa meravigliosa? Ecco, il sogno che ho descritto, e che è destinato a rimanere tale, vuole parlare di questa esperienza, che tutti desideriamo fare: toccare quel punto della vita in cui tutto l’universo ci rivela la sua essenza: quella di esistere, dall’origine dei secoli, solo per noi, qui, ora. L’ha detto Terrence Malick Malik nel film Tree of Life, e secondo me è proprio così.

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