Il dovere del critico? Smascherare i falsi miti

V incenzo Trione li ha definiti «scontemporanei», quei critici alla Jean Clair che non amano l'art system. Nel caso di Luca Beatrice siamo però di fronte a uno «scontemporaneo pop», che frequenta come un teenager concerti rockettari e romba su una Harley&Davidson per la Route66. E anche quando è stato chiamato al Padiglione Italia della Biennale di Venezia (anno 2009, sotto l'egida del ministro Bondi), nonostante le scontate critiche dei radical chic, il tema scelto, post futurista, e il successo di pubblico hanno evitato che il suo pensiero critico potesse essere incasellato (e liquidato) troppo facilmente tra i conservatori. Il volume che raccoglie i suoi articoli su Libero e il Giornale , scritti tra il 2007 e il 2014 - Write on the wild side (Barney, pagg. 418, euro 18,50) - non è certo fedele al mainstream, ma neppure un inno nostalgico al pittorico pompier ottocentesco. Luca Beatrice è acido contro il contemporaneo da contemporaneo, immerso nel mondo della musica trendy e amante del kitsch può permettersi di definirsi berlusconiano (e il suo prossimo libro sarà proprio dedicato all'arte nel ventennio del Cav) senza passare per un servo stupido, può criticare Celant senza essere sgarbiano, sbertucciare Vezzoli sedicente «frocetto di provincia» senza apparire omofobo, definirsi conformista criticando gli anticonformisti che sono pure loro, in fin dei conti, conformisti.

Un tomo divertente da leggere, scritto da uno che vivendo a Torino, capitale italiana dell'arte contemporanea più astrusa, prova sulla pelle cosa significhi essere «dalla parte sbagliata. Per questo Beatrice non teme di elogiare il Dalí de I cornuti della vecchia arte moderna nel quale il pittore surrealista sbugiarda i dadaisti che hanno ucciso la pittura e maledice i critici stupidi ingannati dal brutto. Allo stesso modo, Beatrice sbeffeggia gli chic della body art, come Vanessa Beecroft, sbertuccia le disattese manie monumentali di Lara Favaretto, l'ottuso reducismo dell'arte povera, l'impostura geniale di Damien Hirst...

Nel definire il libro di Beatrice, crediamo indovini Alessandro Gnocchi, nella prefazione, quando ricorda le parole ironiche di Anselm Kiefer: «peccato che l'orinatoio di Duchamp non possa essere esposto due volte»; la cosa che stufa le persone intelligenti non è la dissacrazione in sé a cui tende il contemporaneo, semmai l'eterna riproposizione, da cento anni, degli stessi schemi provocatori che mirano al semplice intrattenimento.

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