Sfatiamo un mito. La mostra di Bologna non presenterà un solo quadro, cioè la celeberrima Ragazza con l'orecchino di perla. Saranno esposte altre 37 opere della golden age olandese (Rembrandt, Hals, Gerard Ter Borch, Claesz...). Per la fama del ritratto di Vermeer, la discussione si sta limitando alla singola opera: il potere simbolico del conversation piece (un oggetto che per la sua qualità e fama suscita discussione) offusca il resto. D'altronde sono sempre più di moda le mostre monstrum dedicate a un quadro unico che ha la forza del «prodigio», alle quali il pubblico accede in massa con le aspettative del fedele davanti alla sacra reliquia.
Tali progetti di marketing culturale non suscitano dubbi, specie quando l'opera ha le caratteristiche dell'eccezionalità, vuoi per qualità intrinseche (bellezza, fama e significanza), vuoi per le modalità espositive (complessità del reperimento, difficoltà nella fruizione). Generano perplessità quando invece il «tutti in fila» è frutto di un'adesione pedissequa all'input della comunicazione: nel 2012, 225mila milanesi si accodarono a Palazzo Marino per sostare davanti ad Amore e psiche stanti del Louvre (opera di media fama) quando nelle Gallerie d'Italia, decisamente più vuote, o a 500 metri, in Villa Reale, è esposto in permanenza Canova. Più in generale, l'opera icona scatena da sempre interessi smodati. Nel 1962 la Gioconda sbarcò in Usa e tra Washington e New York staccò un milione e 700mila biglietti. E un successo sarà anche l'attuale confronto (fino al 27 aprile) alla National Gallery di Londra tra due Girasoli di Van Gogh - valore 100 milioni di euro - riuniti per l'occasione dopo 65 anni.
Senza addentrarci nelle questioni antropologiche e sociologiche che determinano i riti di massa, e limitandoci al campo dei beni culturali, si nota però un certo radicalchicchismo verso queste manifestazioni collettive. Un citatissimo intellettuale italiano ben lo scrisse su un noto quotidiano: lui preferiva vedere i musei a porte chiuse, odiando la puzza di ascelle dei visitatori, assiepati davanti a un quadro, che ne impediscono la contemplazione solitaria. Non tutti però mostrano questo coraggio egotico, si preferisce nascondere le snobistiche critiche da tarda pedagogia sinistrorsa dietro l'obiezione che tali operazioni mancano di scientificità e varrebbero poco più della pornografia. Come se non bastasse, al limite, il potere seduttivo dell'arte e uno dovesse avvicinarsi a essa per imparare chissà che cosa.
Analizzando Vermeer a Bologna le deduzioni sono altre: l'operazione è un esempio di lungimiranza imprenditoriale, visto che l'ideatore Marco Goldin è riuscito a farsi dare l'opera (unica tappa in Europa), ha coinvolto istituzioni pubbliche della città e sponsor privati, ha scelto di rivitalizzare un palazzo storico fané, ha comunicato l'operazione in modo geniale, venduto 80mila biglietti prima dell'apertura, fatto il pieno nella preview (dal 31 gennaio al 6 febbraio) al prezzo di 150 euro a testa che andranno in beneficenza. Sostiene poi che il tetto massimo dell'evento è di 200mila visitatori per le ridotte capacità della sede espositiva, e che per alzare il numero bisognerà estendere gli orari di apertura fino alle 22 e alle 24 nei week end, così da formare code interminabili tutto il giorno e la notte. Infine ci guadagnerà come ci guadagnano, ed è giusto, i produttori di concerti. D'altro canto Bologna che da anni vive un tiepido imbrunire (l'anno scorso ha perso il Motorshow), potrà contare su un evento il cui ritorno economico è notevole per tutti gli operatori del settore (alberghi, ristoranti, negozi in generale). E il pubblico? Il pubblico vedrà non un film porno, non un concerto di Madonna, non una partita di calcio, bensì un'icona della storia dell'arte circondata da altre tele di ottima fattura, tornerà a casa soddisfatto di «esserci stato», magari avrà imparato qualcosa dalla visita e in futuro si recherà perfino al remoto museo Mauritshuis all'Aia nei Paesi Bassi.
Ai critici comunque critici, concediamo i distinguo più raffinati. Il tema è un altro.
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