"La nemesi di Trump", così le Big Tech lo hanno creato e distrutto

La parabola della Silicon Valley, dalla promessa di un mondo libero alla censura contro Donald Trump. Ne abbiamo parlato con Michele Masneri, giornalista de "Il Foglio" e autore di "Steve Jobs non abita più qui"

"La nemesi di Trump", così le Big Tech lo hanno creato e distrutto

Sognando California. È lì che nasce la leggenda della Silicon Valley, dove il futuro è atterrato nel tardo Novecento, con la promessa di un mondo senza frontiere, libero, spensierato, leggero e stralunato, globale e un po’ anarchico, battezzato dall’incontro tra i nerd e i figli dei fiori. Ora di quella promessa di felicità restano Google, Apple, Facebook, Twitter e un grosso timore: questa libertà puzza parecchio di censura. È il dilemma da cui è difficile liberarsi: quanto sono buoni i buoni? Ne abbiamo parlato con Michele Masneri, giornalista del Foglio e autore di Steve Jobs non abita più qui, libro edito da Adelphi che racconta del suo avventuroso soggiorno a San Francisco e la fine dell’innocenza dell’industria tecnologica.

Ci dai qualche coordinata per capire meglio la Silicon Valley?

"La Silicon Valley è un posto che negli ultimi quindici anni ha prodotto una serie di strumenti che sono entrati pesantemente nella nostra vita quotidiana cambiando il nostro modo di viaggiare, comunicare, vivere. Con l’invenzione dell’iPhone nel 2007 è cambiato tutto, e forse per la prima volta nella storia tutti questi cambiamenti provengono da un unico posto, San Francisco e la sua valle. Nel raggio di cento chilometri hai gli uffici di Twitter, Uber, Airbnb, LinkedIn, Google, Facebook, Whatsapp. È un centro di potere e di innovazione unico che per molte cose ha migliorato le nostre vite."

Dave Eggers in The Circle racconta la deriva totalitaria dei social. Tutti connessi, tutti trasparenti, i segreti sono il male dell’umanità. È davvero così?

"Dipende dall’uso che se ne fa. Di sicuro il concetto di privacy è molto cambiato rispetto al passato e i nostri dati personali sono il prezzo che paghiamo per utilizzare questi strumenti che sono in gran parte gratis. C’è il famoso detto: se non paghi, il prodotto sei tu. In futuro ricorderemo quest’epoca come una specie di far west senza regole e ci saranno servizi a pagamento e un Internet protetto. Per il momento è così."

Il tuo soggiorno a San Francisco è costellato di episodi bizzarri e scoperte. Ci racconti qualche retroscena emblematico?

"Lì tutti sognano di fondare una loro startup tecnologica, qualunque lavoro facciano. E se ti impegni un minimo trovi chi ti incoraggia e magari te la finanzia. Il margine tra sogno e realtà è sottilissimo. Così invece che giocare al Superenalotto praticamente tutti in casa hanno una lavagnetta dove appuntano schemi e idee. Il mio padrone di casa era un parrucchiere ma aveva questo posto dove metteva giù i suoi grafici per fondare una prossima Google. Alla fine diventa contagioso, anche io avevo tutta una serie di idee di startup. Qualcuna era pure buona…"

Hai qualche aneddoto anche su Mark Zuckerberg?

"Mi ricordo che la prima volta che arrivai a San Francisco c’era l’ospedale principale della città che si chiamava San Francisco General. Qualche mese dopo, dal nulla, l’insegna era cambiata: si chiamava Zuckerberg San Francisco General, grazie a una sua donazione di 80 milioni di dollari. È l’ospedale dove sua moglie, medico, lavorava. Una cosa da Simpson."

Per ogni Zuckerberg che ce la fa, ci sono mille startupper che falliscono…

"Molti ragazzi arrivano, con risparmi accumulati per anni, resistono uno o due anni e poi se ne vanno. C’è ancora un clima molto avventuroso, del resto è qui che scoppiò la Gold Rush a metà Ottocento. San Francisco era un posto dimenticato da Dio che nel giro di un anno diventò meta di tutti gli avventurieri del mondo. Le sue famose strade sono così ripide per questo: perché non c’era tempo per farle lunghe e aggraziate. Questo spirito è rimasto, la gente è disposta a tutto, vivono nei sottoscala o negli armadi pur di farcela."

Da quelle parti sanno anche come divertirsi… ma guai ad andare ad un party presentandosi come sostenitori di Trump…

"Già, io l’avevo fatto, ingenuamente, arrivando a una cena e pensando di fare una battuta divertente, a fine 2016, quando Trump era stato appena eletto. Ma calò immediatamente il gelo, nessuno rise. La vittoria di Trump era stata ritenuta impossibile e, dopo, la città era sotto choc. Non c’era molta voglia di scherzare."

Ma lo sanno che Ayn Rand, la paladina del capitalismo, non sopportava le prediche della cultura di sinistra?

"Infatti molti grandi personaggi della Silicon Valley, come Elon Musk, si considerano libertari, e non si riconoscono né nel partito democratico né in quello repubblicano. Sognano un mondo senza regole, un po’ primordiale, dove l’imprenditore è una specie di semidio che comanda sui suoi sudditi. Così ora Musk si trasferisce in Texas, un posto che somiglia di più a questo mondo immaginario."

Tra latte di soia e bimbi in provetta sembra che nella Silicon Valley siano tutti ultraprogressisti, pensi che questo influisca sulle decisioni prese dalle piattaforme?

"Sicuramente per loro Trump è sempre stato il male. La misoginia, l’arroganza, la xenofobia. Diciamo pure che lui non ha fatto nulla per far loro cambiare idea. Qualcuno sperava in una “reaganizzazione”, una specie di discesa dello spirito santo che aveva colpito Ronald Reagan ai tempi. Lui infatti era stato prima governatore della California e poi presidente, e pur essendo di destra, era autorevole e amato anche in California. Un po’ come Schwarzenegger, che pur essendo repubblicano è rispettato. Purtroppo nel caso di Trump questo fenomeno non è avvenuto. C’è un limite anche allo spirito santo..."

Come "ragionano" le Big Tech: seguendo logiche di profitto o politiche?

"Sicuramente in termini di profitto, però hanno anche una forte coscienza sociale, reale o di facciata, dovuta al fatto che stanno quasi tutte in California, uno Stato storicamente a sinistra e attento ai diritti civili."

Avresti mai detto che un giorno avrebbero oscurato persino un presidente americano?

"No, era una cosa veramente impensabile fino a qualche giorno fa."

Ma i colossi che oggi hanno decretato la fine di Trump non sono gli stessi che l’hanno creato?

"Sicuramente è un rapporto ambiguo, perché Facebook e Twitter hanno contribuito a creare Trump e a diffondere il suo messaggio. Per loro l’obiettivo è tenere gli utenti ingaggiati il più a lungo possibile, non importa a fare cosa e discutendo di cosa. Però a un certo punto i loro fondatori e amministratori si sono resi conto che si era superato il limite, e forse anche sentendosi un po’ in colpa per averlo facilitato hanno deciso questo atto clamoroso. Molto probabilmente hanno anche informazioni che nessun altro ha e si sono preoccupati: del resto gli basta incrociare i dati."

È un modello di business compatibile con la democrazia?

"Penso che paradossalmente solo il mercato poteva battere davvero Trump. Le istituzioni sono troppo lente. Sono fatte per un’altra epoca. Invece il mercato in questi giorni lo sta colpendo dove gli fa più male, al portafogli e alla visibilità. Gli stanno bloccando i pagamenti e le aziende rifiutano di lavorare con le sue.

Trovo che sia una fantastica nemesi: uno che ha anteposto il suo interesse personale allo Stato, ai cittadini, che ha messo i soldi prima di tutto, viene colpito proprio sul suo interesse personale, e questo può farlo solo il mercato."

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