Il giorno in cui cadde la Bastiglia, a chi gliene portava notizia Luigi XVI chiese: «È una rivolta?». Gli fu risposto: «No, Maestà, è una rivoluzione».
Le rivoluzioni sono cicliche, ma hanno tempi lunghi, la ribellione cova sempre sotto la cenere. E dev'essere un sentimento attualmente condiviso, se se ne parla tanto. Per rendersene conto basta dare un'occhiata alla saggistica corrente: è uno degli argomenti più affrontati. Nell'ultimo lavoro di Donatella Di Cesare, Il tempo della rivolta (Bollati Boringhieri, pagg. 128, euro 12) c'è una frase assai suggestiva: «Dove soffia il vento della resistenza aleggia lo spirito della rivolta». In effetti la ribellione è un'opposizione a un potere dominante che cerca di confinarla in un tempo e in uno spazio definiti e controllabili, che siano un luogo di lavoro, una scuola, una piazza, un teatro. D'altronde la parola stessa, «manifestazione», lo dice chiaro: proprio lì, in quel momento, qualcuno protesta contro il potere. Lo abbiamo visto di recente in molti luoghi, al Campidoglio di Washington contro i risultati delle elezioni americane, in Italia e in Europa contro le restrizioni antivirus, a Hong Kong contro il dominio cinese, in Birmania a favore della leader Aung San Suu Kiy (e di fatto contro il regime dei militari). Ma questo andare contro è paradossalmente favorevole al potere, come ben sapeva Carl Schmitt quando spiegava che perché ci sia la coesione in un raggruppamento umano c'è sempre bisogno di un nemico ben definito. Al limite, la piazza può far comodo al potere dominante.
Le cose sono un po' diverse quando la ribellione travalica i confini dello spazio pubblico, e nel mondo della rete questo è già avvenuto, per esempio con le rivelazioni dell'informatico Edward Snowden sullo strapotere dell'Agenzia Nazionale di Sicurezza americana (NSA) e le fughe di notizie di WikiLeaks del disgraziato Julian Assange. E poi c'è stato il movimento di Anonymous, una trasversale rivolta di hackers, sfuggenti e imprendibili sulla rete, che non di rado è passata nelle piazze reali.
Potremmo dire che nella società liquida la rivolta è fluida. E non si tratta più solo di manifestazioni di destra o di sinistra, c'è ben altra carne al fuoco delle ribellioni.
Lo troviamo spiegato in Revolt (La nave di Teseo, pagg. 528, euro 22, traduzione di Chiara Spaziani), dove Nadav Eyal cita anche il nostro Paese: «La crescita del populismo e del nazionalismo, dal Brasile, all'Italia, all'Ungheria, costituisce un attacco, per quanto diffuso, alla globalizzazione attuale, sviluppatosi nella cassa di risonanza delle ingiustizie che hanno afflitto le classi medie di tutto il mondo industrializzato». Ecco allora che «i ribelli sono una disparata coalizione di reietti», sostiene Eyal. Altro che destra e sinistra. La gestione dell'epidemia da parte di classi dirigenti del tutto impreparate manda in crisi le certezze di un mondo iperconnesso. Si crede di sapere tutto e non si sa niente, salgono la frustrazione e il risentimento.
Il già citato Carl Schmitt appare anche nel saggio di Alessandro Colombo Guerra civile e ordine politico (Laterza, pagg. 320, euro 25), laddove il nemico è sempre necessario all'interno di una comunità di simili. I recenti moti del Campidoglio americano sono la punta visibile di un malessere sociale che ha avuto espressione anche nella guerriglia di strada del Black Lives Matter (a proposito, il memoriale della fondatrice del movimento, Patrisse Cullors, dal titolo Quando ti chiamano terrorista, è uscito nel 2020 per la piccola casa editrice Ottotipi, ed è tutt'altro che un testo distensivo).
Può darsi che il desiderio di rivalsa sia nato da una promessa non mantenuta, quella dell'Età dei Lumi, che avrebbe assicurato benessere, giustizia, uguaglianza, e che invece ha portato ben altri frutti. Pankaj Mishra la definisce L'età della rabbia, in un saggio uscito un paio d'anni fa e ora tornato largamente in circolo (Mondadori, pagg. 348, euro 25, traduzione di Sara Prencipe e Luca Fusari). Curiosamente, l'impresa di Fiume, fomentata da D'Annunzio, è qui considerata un atto di terrorismo, per quanto commesso da rivoltosi che si sentivano defraudati dal governo italiano. Il tempo presente è invece tormentato dal disagio dei giovani che in tutto il mondo vogliono le stesse cose, ma non riescono ad averle, perché non ce n'è per tutti, e allora inseguono fantasie di violenza e ed estremismo, religioso, nazionalista, xenofobo.
Però, capiamoci. Di per sé ogni società democratica ammette al proprio interno il conflitto, cioè una discussione che può assumere anche toni accesi. Ma lo scenario cambia quando esplode la rabbia, e si fa concretamente violento se alimentato dalla convinzione di un'ingiustizia subìta. Certo, è di per sé abbastanza fumoso affermare che per eliminare i conflitti basti perseguire ideali di giustizia sociale. Si rischia di parlare in astratto, quando una crisi come quella del Covid, per esempio, chiede alle istituzioni risposte concrete.
L'invito a ribellarsi viene perfino da un uomo di Chiesa come Giulio Dellavite, segretario generale della Curia di Bergamo. Il suo ultimo libro, un romanzo allegorico, si intitola proprio così: Ribellarsi (Mondadori, pagg. 252, euro 18). Non possiamo che essere nel campo della non violenza, ma si tratta pur sempre di detronizzare i tiranni che ci opprimono, anche immaginando che questo possa avvenire a partire da se stessi, per eliminare l'inquinamento interiore, cioè ri-bellarsi nel senso di tornare al bello. Per spiegarsi meglio, Dellavite trova una metafora appropriata riferita a ogni parte del nostro corpo, dalla testa ai piedi.
L'elenco di libri sull'argomento potrebbe continuare. Gli anni Venti arrivano mezzo secolo dopo quei Settanta che videro le piazze e le strade italiane incendiarsi di proteste, occupazioni, scioperi. Le pubblicazioni in merito sono talmente tante che richiederebbero troppo spazio. Citiamone almeno una: Addio rivoluzione di Maurice Bignami (Rubbettino, pagg. 406, euro 19). L'ex terrorista, fondatore di Prima linea, poi dissociato, oggi redento alla democrazia, è ormai ben lontano dal marxismo delle origini.
Si potrebbe obiettare che un addio alla rivoluzione non è affatto un saluto definitivo alla ribellione, e che quest'ultima non ha bisogno di un substrato ideologico molto profondo, essendo mossa da pochi e perfino semplici bisogni.Il tutto mentre si avverte intorno la tensione di quanti, oggi, si sentono danneggiati da politiche di emergenza sanitaria che potrebbero finire per allargare ancor di più le differenze generazionali e sociali.
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