L'aereo era un vecchio e scalcinato apparecchio di linea greco, arrivato non so come sulle coste del Corno d'Africa e divenuto, con sommo sbigottimento dei passeggeri, il mezzo incaricato di riaprire la tratta aerea Mogadisco-Nairobi, dopo quasi un decennio che questa era stata sospesa. Avevamo appena concluso il nostro primo reportage in Somalia e stavamo ritornando nella capitale del Kenya. Non eravamo in molti su quel volo, seduto accanto al finestrino c'era Marco Gualazzini che leggeva ''Autoritratto di un reporter'' di Kapuscinsky e con una matita affastellava sottolineature e appunti come giaculatorie su un breviario personale: ''la missione è qualcosa i cui frutti esulano dalla nostra persona. Non lo si fa per comprarsi la macchina e la villa, lo si fa per gli altri''. E ancora: ''può esserci una speranza che, nella nostra famiglia umana, l'intesa e la benevolenza prendono il sopravvento su ostilità e conflitti''. Sottolineava, scriveva e mi faceva leggere quegli aforismi, affinché li apprendessi, li facessi miei come in un dettato di deontologia professionale e umana. Non capivo allora come si potesse parlare di speranza in quel momento e continuai per molto tempo a chiedermelo.
La Somalia e la capitale Mogadiscio erano ancora la terra del fallimento per antonomasia di una nazione. La miseria si accompagnava alla violenza e l'emarginazione di un popolo era riflessa nella solitudine di una donna che da sola entrava nella cattedrale della città. Avvolta in un hijab camminava, come sospesa dal tempo e dalla tragedia, verso l'ingresso di quel luogo martoriato da raffiche di mitra e colpi di mortaio, dove l'uomo si era spinto a violentare il sacro, lasciando soltanto, a memoria del terrore, un Cristo ferito che, aggrappato a un croce mutilata, guardava ferocie considerate defunte riaffacciarsi sulla storia. Quante domande in quel momento: domande verticali, domande che pretendevano segnali e dimostrazioni, domande rimaste sospese, gridate in silenzio. Domande che hanno generato negli anni sensi di colpa, domande orfane di risposte cercate in ogni angolo del mondo: dov'è la speranza, dov'è il futuro, dove sei Dio? Oggi quelle domande sono riaffiorate insieme ai ricordi dalle pagine di un libro fotografico, Resilient. Ed è rivivendo le istantanee di Gualazzini, scattate in dieci anni di reportage in Africa, ripercorrendone le ombre e soprattutto le luci, rievocando i suoni, gli odori, le grida i brividi di paura, che finalmente risposte a quegli interrogativi, i più terreni, umani e deboli che possano sorgere, sono arrivate.
Aprite Resilient, il libro di Marco Gualazzini edito da Contrasto, osservate quella cattedrale di Mogadiscio, la fotografia che apre il libro, percorrete le scale, prendete per mano la donna che le sta salendo, ed entrate in quel luogo dove tutto sembra essere finito, per cercare invece, anche voi in voi e in queste pagine, l'essenza di un mestiere, di una professione e di un Uomo che ha fatto ciò che, poco più che trentenne, copiava su un taccuino durante il ritorno dal suo primo viaggio in Somalia, ''comprendere gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi, le loro tragedie e diventare, subito, fin dal primo momento, parte del loro destino'', facendo così tremare, sui suoi stessi cardini, la parola Finito. Resilient non è un semplice libro e neppure un libro semplice: è responsabilità dell'assistere, è obbligatorietà di testimonianza, è il libro di un continente, prima vissuto e poi raccontato, ed è il libro di uomini, donne e bambini protagonisti nell'epica della vita di ogni giorno. Sono storie spesso di dolore, dolore puro. Oltrepassate la navate della cattedrale somala e vi troverete negli ospedali sulle montagne del Nord Kivu dove il velo delle zanzariere preserva la dignità di donne stuprate dai gruppi paramilitari, incontrerete la disperazione degli yemeniti che sbarcano sulle coste somale rifugiandosi in un campo di battaglia, guarderete negli occhi i terroristi di Boko Haram e le madri che a causa loro hanno perso i figli, oppure sarete nei foxholes in Sudan abbracciati ad altri uomini che si rifugiano sottoterra perché dal cielo piovono bombe a grappolo. E' un'opera questa di storie non dimenticate.
E' resilienza, e resistenza, contro l'anonimato delle vittime e contro le stigmatizzazioni di terre troppo spesso confinate nel limbo del luogo comune e della condanna precostituita. Ed è un libro che non spettacolarizza il dolore, anzi, è un libro che osserva il male da un obiettivo di umanità. Potrebbe apparirvi banale retorica questa e devo allora raccontare, per fugare questo sospetto, un altro aneddoto. Molte di queste foto hanno vinto premi internazionali, blasonati e prestigiosi. Una foto, ma non vi svelerò quale, ha ottenuto un premio importante e quando l'autore di questo lavoro ha ricevuto la notizia, subito si è innescata in lui una preoccupazione: non un'esultanza legittima, non un autocompiacimento per un merito professionale, ma una preoccupazione. Ritornare là dove questa foto era stata scattata per incontrare il soggetto di quell'immagine, perchè loro vivono, loro attraversano le tragedie e le storie, noi testimoniamo. A loro deve rivolgersi quindi la nostra attenzione. Non dirò se è stato possibile incontrare quella persona, questi ricordi è giusto che rimangano custoditi in chi li ha vissuti, però questo è un libro di centinaia di incontri che conducono a una ricerca continua dell'umanità e del suo divenire.
E' una Spoon River fotografica e tropicale da guardare con occhi nuovi, capaci di stupirsi, indignarsi e anche commuoversi, per essere così maggiormente parte viva del nostro contingente e meno prigionieri nel fortilizio de ''gli uni e gli altri''. E' il mio punto di vita, ed essendo coinvolto in questa storia, forse, peccherò di mancanza di imparzialità; ma di una cosa sono certo, perché l'ho visto nascere questo libro: è Sensibilità. Sensibilità fotografica, e le foto mi danno ragione, e Sensibilità umana, e sempre le foto mi danno ragione, perchè senza di questa, le immagini che compongono questo lavoro sarebbero nate sotto un'altra luce. E' una scelta di campo personale, quella di essere reporter in questa maniera, o da una parte o dall'altra; poi sono i lavori ultimi a svelarci quale strada è stata presa: e Resilient, è quella parte di strada che, come un marciapiede di una città africana, invita a camminare, a osservare, a riflettere, e poi a continuare ad andare avanti perchè, anche se sopraggiunge un temporale fuori stagione, sa comunque conservare e infonderti il ricordo del calore. Ed è così, proprio dopo esser stati pervasi dal ricordo del calore, che si riesce arrivare a dare quelle risposte che tanta inquietudine, paura, colpevolezza e rabbia hanno generato in questi anni. Tornavamo da un viaggio in Ciad e lì ci eravamo spinti in un mondo ai confini del mondo, dove le vittime per non essere tali divengono esecutori di stragi e massacri e dove nel calore del deserto si cuciono addosso brividi di freddo nell'osservare vecchi morire soli, aggrappati a una flebo legata a un albero nel nulla. Ancora domande, sempre le stesse, e proprio a quelle latitudini leggevamo un articolo di padre Alex Zanotelli che scriveva nel suo pezzo: ''Chi è Florence? «Una ragazza bellissima di Korogocho, prostituta a 11 anni, morta di Aids a 17, abbandonata anche dalla madre. Era in agonia. Accorsi di notte nella sua baracca. Non c’era la luce, non la vedevo.
Pregava così: “Mungu mi mama”, Dio è mamma. Allora le chiesi che volto avesse l’Altissimo. Restò in silenzio per cinque minuti. Alla fine esalò: “Alex, sono io il volto di Dio”. Sono state queste parole ad accompagnarmi nell'immersione nel libro di Gualazzini e nei ricordi che esso evoca. Ed ecco che ora si che le risposte a quelle domande, che tanta inquietudine e conflitto avevano generato, finalmente affiorano.
La speranza, il futuro e Dio sono nel volto di Daniela, nata da uno stupro in Congo e voluta ad ogni costo da sua madre che oggi vive amandola e guardandola gattonare per cercare nel suo sorriso l'antidoto agli incubi che la perseguitano, sono nei piedi scalzi e consumati dei bambini dell'Yida Camp che hanno trasformato un bombardiere in un parco giochi, sono in Sara Tuzakaria, conosciuta in una tendopoli a Yola in Nigeria, i cui figli sono stati rapiti da Boko Haram e che non smette di cercarli vagando per tutte le tendopoli della regione, sono in Abdullay Tidjiani che dopo aver combattuto nelle fila delle bandiere nere africane cerca oggi redenzione facendo il biblico mestiere del falegname, sono nei profughi di Yaloke arroccati su una collina in Repubblica Centrafricana impossibilitati a fuggire, costretti a seppellire i propri morti giorno dopo giorno, ma mai rassegnati all'accettazione dell'ingiustizia, sono nelle foto del libro che avete tra le mani che vi racconta come Dio sia Resilienza; e lo fa, siate attenti, aprendo le porte di una cattedrale oltraggiata, conducendovi nel dolore, per poi accomiatarsi da voi, su una spiaggia somala, lasciandovi insieme a dei bambini che nonostante il male di una terra troppo spesso definita dannata, sono tornati a giocare, a pescare, a tuffasi e quindi, contro ogni facile condanna fatta a priori, sono tornati a vivere.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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